Essere il cambiamento che si vuol vedere nel mondo. Forse, oltre che a dirlo, dovrei iniziare a lavorarci su.

Una volta mi trovai a litigare con una compagna del collettivo di Scienze in merito ad un volantino. Mi sono sempre occupato della grafica e della produzione di siti e manifesti. In quel volantino avevo inserito la scritta: “Be the change you want to see in the world- Mohandas Gandhi”. Panico. Gandhi era un non violento, un filocapitalista, un riformista. Gandhi aveva appoggiato le stragi in Africa portate avanti dal governo britannico (che immagino considerasse irrinunciabile il suo appoggio). Insomma Gandhi era troppo poco comunista per essere inserito nel nostro volantino. Ma vaffanculo.

Quella frase, a me, è sempre piaciuta. Sono fatto così, mi piacciono le frasi ed i concetti anche se quello che le dice non mi piace. Interiorizzare un cambiamento che si vorrebbe collettivo vuol dire comprendere l’intima connessione tra la dimensione individuale e la dimensione collettiva. Due dimensioni che hanno conosciuto un contrasto che ha attraversato tutto il secolo passato, quando parlre di collettività ti portava verso il Socialismo, e parlare di individuo era la narrazione tipica del Capitalismo. Forse una delle grandi conquiste della postmodernità è proprio il superamento di questo contrasto uno/molti.

Essere il cambiamento dunque, esserlo per realizzarlo. Diventare il cittadino di un mondo migliore né prima né dopo averlo realizzato, ma mentre lo si costruisce. Inizio da ora, nel mio piccolo.

Si perché questo post nasce con grandi pretese ma trova una conclusione piuttosto personale. Voglio fare un piccolo esperimento su di me. Sono le ore 15:00 in punto. Io sono in un’aula studio della Sapienza, e voglio cambiare. Uscirò di qui alle 19:30 e tornerò a casa. Questa sera voglio scrivere che cosa ho fatto e come penso che il ché potrebbe cambiare le cose.

A dopo.

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