La politica radicale e la “biforcazione suicida” della sinistra italiana.

Mentre tento di darmi pace su quale grafica scegliere per questo sito, mi lascio sfuggire una considerazione breve su di uno dei temi preferiti dalla mia generazione: perché la sinistra, in Italia, fa schifo al cazzo. Aiutiamoci con la matematica.

In matematica, la teoria delle biforcazioni è stata elaborata al fine di descrivere quelle situazioni in cui una piccola variazione di parametri in un sistema complesso può portare a risultati molto divergenti tra di loro. Si fa spesso l’iperbole della farfalla che sbatte le ali a Pechino causando un temporale a New York. La situazione ve la potete immaginare come quella di una linea su di un grafico che procede in orizzontale per poi “biforcarsi” in due linee divergenti che si aprono a imbuto.

Biforcazione di una mappa logistica di una equazione dinamica non lineare.

La peculiarità di molti di questi casi è che il sistema può prendere due configurazioni molto distanti tra loro, ma è incapace di assumere una configurazione intermedia, o una terza cofigurazione. In questo, un esempio abbastanza facile da comprendere è quello della stecca di plastica che viene pressata ai suoi apici. Se si aggiunge abbastanza forza, la bacchetta si piegherà di colpo verso l’alto o verso il basso, come se, a quelle condizioni di pressione applicata, non riuscisse ad assumere configurazioni intermedie. Non sono sicuro in quanti sarete rimasti a leggere, ho il sospetto che buona parte di quelli che lo hanno fatto mi staranno prendendo per scemo, ma posso garantirvi che ha senso. Almeno per me. Perché se una biforcazione è l’evoluzione di un sistema che arriva a due opposti molto distanti tra loro, allora questo è quello che probabilmente è successo alla sinistra italiana.

Durante gli anni settanta, parte del movimento comunista in Italia si rese conto del fatto che il PCI non aveva poi tutta questa voglia di fare la rivoluzione, e decisero di porsi in critica aperta con le pratiche autoritarie del centralismo democratico e con la via istituzionale, percepita come contrapposta a quella rivoluzionaria e con essa non conciliabile. Da allora, nonostante sporadici tentativi di comunicazione e collaborazione, i due “estremi” hanno finito per allontanarsi, per divergere macroscopicamente.

Il PCI ha percorso la walk of shame che conosciamo bene, quella che passa per l’araldica vegetale degli anni novanta (quercia e ulivo) e arriva al PD, al renzismo e alla confusione di questi ultimi due anni. Sulla strada una lunga serie di spin-off e progetti alternativi, tutti più o meno falliti, evoluti, superati da condizioni oggettive, ridiscussi, ripensati e soprattutto rifondati. Allo sfinimento.

Dall’altra parte invece, quella del rifiuto della via istituzionale, la grande produzione politica e culturale degli anni ’70 e il movimento dell’autonomia hanno dettato gli standard dei decenni a venire. Ora qui aizziamo un dibattito acceso, ma io sono uomo di mille semplificazioni e con me dovete avere pazienza. Di base, il segno di questi decenni è stato un progressivo abbandono degli approcci classici del marxismo – leninismo e la sempre maggiore sintonia con le aree anarco-libertarie. Il rifiuto della via istituzionale, all’inizio motivato dalla presenza di prospettive rivoluzionarie al di fuori della rappresentanza democratica (e borghese), si è incistito in una posizione esistenziale, in cui la via istituzionale passa dall’essere inefficace a un autentico tradimento, da rifiutare in ogni caso. Anche quello in cui le famose prospettive rivoluzionarie vengono clamorosamente meno.

In politica non esistono situazioni “intermedie” perché la politica è tutto fuorché lineare, ma bisogna riconoscere come l’evoluzione divergente di partito e movimento abbia tralasciato una serie di configurazioni alternative possibili, che se non sono esattamente intermedie possiamo comunque definire “terze”.

Oggi siamo costretti a giostrarci tra una sinistra istituzionale ossessionata dalle poltrone e disposta a tutto pur di conservare un posto al sole in tempi di egemonia culturale liberale, e un movimento che ha sacrificato la propria efficacia politica sull’altare di una intransigenza che ormai capiscono in poche e pochi.

In parlamento, una sinistra che si è fatta sempre più “educata” ha ossessivamente smussato gli angoli e rinunciato a posizioni percepite come “troppo radicali”, ossessionata di piacere a quella supposta “maggioranza silenziosa” che il berlusconismo ha creato ad arte.

L’alternativa a questo è un movimento ormai ridotto a posizione esistenziale, ossessionato dal rifiuto del compromesso, chiuso in una torre d’avorio dalla quale è convinto di poter giudicare tutto e tutti (e tutte e tuttu), ma incapace della produzione politica e della vivacità culturale dei decenni passati.

In tutto ciò, quello che manca è una strategia che, per via istituzionale o non istituzionale, sappia implementare delle scelte che mettano in discussione lo status quo. Prendiamo la polizia e gli abusi commessi dalle forze dell’ordine. La “sinistra” nelle istituzioni si limita a qualche rimbrotto, a denunciare gli abusi solo quando essi sono talmente evidenti che si denunciano da soli, come è stato per il caso Cucchi. A livello di movimento, invece, si resta fermi sul rifiuto totale della polizia come parte del sistema repressivo funzionale al capitalismo, e con esso da rifiutare in blocco. In pratica, tra Minniti e ACAB sono pochi quelli disposti a fare una campagna per mettere le telecamere nei commissariati, porre in discussione le regole di ingaggio degli agenti delle forze dell’ordine e magari rivedere in senso critico la loro formazione.

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Felici, senza una ragione valida per esserlo.

Di solito aspetto la Befana per tornare da Roma visto che, qui a Barcellona, durante la prima settimana di gennaio si lavora poco e niente. La gente si riprende da un capodanno tutto sommato modesto (non hanno una gran tradizione per il capodanno da queste parti), e ci si prepara per il ritorno in ufficio dopo l’epifania. Di solito allungo fino al 7 per stare un po’ di più a casa con i miei, ma stavolta sono tornato in tutta fretta la sera del 2.

Avevo i miei buoni motivi. Il 5 si è giocato il derby tra la squadra del quartiere in cui vivo, l’Europa, e il Sant Andreu, compagine di un quartiere alla periferia di Barcellona. Si tratta di squadre che militano nella 3 divisione, la quarta serie dello stato spagnolo, in un torneo regionale che sfocia in playoff a livello statale. Poca roba, direte voi, ma il tifo non manca. Il derby tra Europa e Sant Andreu è definito da molti come il “vero” derby di Barcellona, visto che le due squadre hanno tifoserie sorprendentemente nutrite per questa categoria, e che sentono il derby molto più di quanto i tifosi del Barcellona e dell’Espanyol sentano il loro. E si, da quando quasi cinque anni fa il mio coinquilino Raphael mi portò alla mia prima partita dell’Europa, sono uno di loro.

E quindi il 5 mi sono svegliato presto, sono andato allo stadio per le 11, un’ora prima dell’inizio della partita, ho aiutato ad allestire gli striscioni, bevuto birra cantato e poi, mi sono visto il derby. Ero tornato da Roma espressamente per quello. Come è finita? Benissimo. Abbiamo perso 2-0 in casa. Ma è andata bene lo stesso. Dopo anni di lavoro di promozione di questa realtà di calcio popolare ci siamo trovati in più di 3000 allo stadio, con una curva piena che non ha smesso mai di cantare, anche quando i nostri sul campo si sono arresi al rigore sbagliato dal capitano, al primo gol su papera del nostro portiere e al fulminante 0 – 2 su contropiede a cinque minuti dalla fine. Non abbiamo smesso di cantare neanche dopo la partita, quando ci siamo spostati al centro sociale del quartiere per mettere musica e continuare a stappare birre. Io non mi sono fermato fino alle nove, quando mi sono trascinato al giapponese sotto casa per prendere da mangiare per me e per Miriam. Qualcuno di loro non ha smesso fino alle 3 di notte, ma sono giovani e non hanno ancora nessuno da sfamare. La frase che descrive meglio il tutto me l’ha detta Ramon, urlandomela nell’orecchio come si fa per farsi sentire quando c’è la musica alta, mentre finivo l’ennesima birra: “imagina’t si haguéssim guanyat”, “pensa se avessimo vinto”. Probabilmente ci avrebbero trovato appesi ai balconi della Virreina a lanciare lattine vuote in testa ai turisti.

Che senso ha tutto questo? Che senso ha tornare prima da Roma, che senso ha appassionarsi a una squadretta di terza categoria di un quartiere che è tuo solo perché hai trovato un affitto decente, che senso ha festeggiare un derby perso in malo modo? Che senso ha?

Bisogna sempre diffidare delle persone che si autodefiniscono razionali, lo dico da sempre. In realtà sono degli ipocriti che tentano di nascondere il loro lato emotivo, facendoti credere che ogni loro affermazione, valutazione e decisione siano il frutto di ponderazione e buon senso, e che l’emotività non riesca mai a condizionarli. Non è vero, il cervello ha due lobi e gli esseri umani è così che funzionano. Raziocinio ed emozione, algoritmi e sentimenti che convivono nella stessa persona. E allora la risposta che quelle domande vanno cercando è semplice: non c’è, non c’è nessun cazzo di senso in tutto questo. C’è solo una lunga serie di canti struggenti e rimati presi in prestito da vecchie canzoni, fiumi di birra, punk iberico e una partita di calcio. Alla fine ti ritrovi sbronzo, sudato e felice. Senza alcuna ragione valida per esserlo.

È come una felicità immeritata, immotivata e rubata durante l’intervallo tra un Natale passato a sentirti vecchio rivedendo i luoghi in cui sei cresciuto e un martedì 7 gennaio in cui dovrai sederti alla tua scrivania del PRBB. Come dottore, per la prima volta.

Non so perché seguo l’Europa, ma so che quella felicità immeritata me la rubo volentieri ogni volta che posso.

Forza Roma, i Visca el Club Esportiu Europa.

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(P)our (h)im a (D)rink.

E alla fine, è successo. L’Università Autonoma di Barcellona mi ha conferito il dottorato in Biologia e Biotecnologie vegetali. La mia tesi si è focalizzata su alcuni “pezzi di DNA” che hanno la capacità di muoversi all’interno del genoma. Staccarsi da un cromosoma per andare da un’altra parte, oppure fare una copia di sé stessi che si andrà a inserire a sua volta in una regione di DNA. Si chiamano trasposoni o elementi trasponibili (transposable elements), e sembra che siano in grado di dar luogo a fenotipi interessanti.

In agronomia se ne conoscono diversi. L’uva bianca, le mele senza semi, le pesche noci. Tutte caratteristiche emerse grazie al fatto che uno di questi trasposoni è saltato nel “posto sbagliato”, e ha distrutto un gene fondamentale per lo sviluppo di una certa caratteristica.

Il mio lavoro è stato in larga parte dedicato alle pesche e alle mandorle. La storia di queste due specie è carina da raccontare. Quindici milioni di anni fa quella che allora era un’isola gigante alla deriva nell’oceano, e che oggi chiamiamo India, iniziò a scontrarsi con l’Asia, provocando il sollevamento del Tibet e la formazione dell’Himalaya. Ai tempi, in tutto il sud dell’attuale Eurasia si trovavano dei piccoli alberi probabilmente già in grado di produrre delle splendide infiorescenze bianco-rosa ai primi cenni di primavera. La formazione dell’Himalaya finì con l’isolare un gruppo di questi alberi, una “popolazione”, nell’attuale regione nord-occidentale della Cina. Gli stravolgimenti geologici portarono a seri cambiamenti climatici, che indussero questi alberi ad evolvere. Nel giro di qualche milione di anni, svilupparono caratteristiche differenti rispetto a quei loro simili da cui erano stati separati, la più evidente delle quali era un frutto carnoso e commestibile. In pratica, le pesche. La sorte degli altri alberi in giro per l’Eurasia è complessa e discussa in un dibattito intricato fatto di sottospecie, specie selvatiche, varianti e via precisando. Diciamo, per comodità, che gli alberi che rimasero divennero quelle che oggi conosciamo come mandorle. Secondo alcuni studi recenti, pesche e mandorle una volta erano la stessa specie, e devono il loro differenziamento alla comparsa della catena dell’Himalaya.

Il contributo che abbiamo dato con il mio dottorato è stato quello di evidenziare che i “pezzi di DNA che saltano da una parte all’altra”, i trasposoni, si sono comportati in maniera diversa nelle due specie. In Pesca c’è stato un boom di nuovi trasposoni abbastanza importante, iniziato 5 milioni di anni fa, quando le due specie si sono separate. In mandorla questa accumulazione non c’è stata, però il genoma di mandorla conserva molti più trasposoni “antichi” che in pesca si sono invece persi, probabilmente a causa della riduzione di popolazione che ha subito quest’ultima a causa degli stravolgimenti climatici seguiti all’innalzamento del plateau tibetano. I risultati sono stati inclusi in un articolo in cui abbiamo pubblicato una versione del genoma di mandorla.

La mia borsa di dottorato si era esaurita già lo scorso aprile, ma il dottorato non lo avevo ancora finito. Questo succede praticamente sempre qui nello stato spagnolo, a parte qualche caso eccezionale, sicuramente virtuoso ma pur sempre isolato. Per fortuna ho trovato una posizione come bioinformatico all’Istituto di Biologia Evolutiva dell’Università Pompeu Fabra, sempre qui a Barcellona. Il 31 marzo scorso ho finito la borsa del CRAG, il primo aprile ero già ad installare biopython e pandas sul computer del nuovo lavoro. A parte la soddisfazione di non restare disoccupato neanche un giorno, la verità è che il nuovo laboratorio è fantastico. Lavoriamo su mammiferi con un approccio evoluzionistico fortemente basato sulla biologia dello sviluppo embrionale e noto come “evo-devo”. C’è una strana versione nerd di “Despacito” che spiega di che si tratta.

Più specificamente, il mio compito è studiare le basi genetiche di alcuni aspetti della morfologia craniale dei mamiferi e la loro evoluzione. Chiaramente c’entrano i trasposoni, altrimenti sarebbe stato complicato per me passare dalle pesche alle scimmie, per quanto mi consideri flessibile. Vedremo, intanto i primi risultati già ci sono e la cosa promette bene.

Alle pubblicazioni ci penseremo da domani, anzi, da dopodomani. Adesso il punto qui è più che altro sopravvivere al giro di cene, feste, brindisi e auguri d’ogni sorta. Fra dottorato, cene di fine anno con colleghi e amici, e feste di dottorato (una qui e una a Roma, chiaramente), rischio di rimanerci davvero secco. Speriamo bene.

Nel frattempo, mi scrollo di dosso quattro anni di treno per Sabadell, situazioni tossiche al lavoro e tutto il resto.

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L’anticapitalismo ai tempi di Greta.

Ci sono molti sindacati che stanno pianificando scioperi, voglio dire: adulti che scioperano dal loro lavoro. E questo è così incredibilmente importante, mostrare che questa protesta non è solo dei bambini o degli adolescenti. È la protesta di tutti (…) Stiamo scioperando per distruggere il sistema.

Con queste parole, Greta Thunberg commentava la crescita di adesioni agli scioperi del clima, in una intervista su Democracy Now rilasciata lo scorso settembre. La cosa fenomenale di questo personaggio è la sua capacità di trasmettere con semplicità e senza vergogna un messaggio profondamente radicale. Di solito, parlare apertamente di “distruggere il capitalismo” finisce per relegarti nel ruolo di “quella o quello della sinistra radicale, massimalista, post-comunista”. Dopo 20 anni di criminalizzazione e denigrazione da parte del mainstream berlusconiano, anche buona parte della sinistra è diventata scettica sulla possibilità effettiva di superare il sistema capitalista. Invece arriva lei, e con tutta la tranquillità del mondo afferma che il sistema non è da “cambiare” o da “modificare radicalmente”. Il sistema, ovvero il capitalismo, è da distruggere.

Perché? Perché inquina, devasta, distrugge il pianeta e non è compatibile con la sopravvivenza della specie umana. Nella critica ecologista, il capitalismo prende la forma di un atteggiamento autodistruttivo, esattamente come lo è il fumare o fare abuso di sostanze per un singolo individuo, ma in chiave collettiva e globale. Un qualcosa da smettere di fare prima che sia lui a distruggere te. O meglio l’ambiente in cui vivi, e quindi te. Per la prima volta, la critica al sistema capitalista si ritrova svuotata di ogni connotazione politica e resta su di un piano puramente denotativo e radicalmente fattuale: il sistema non è compatibile con il pianeta, rischia di ucciderci e per questo va distrutto. Punto. Dicendola con un termine orribilmente di moda: l’anticapitalismo ecologista è un anticapitalismo “post-ideologico” perché non si occupa di ridefinire i rapporti di forza interni alla società umana, ma si limita a criticare quanto il sistema che impone questi rapporti di forza, cioè il capitalismo, renda la società incompatibile con l’ambiente esterno.

Nonostante la cosa abbia l’effetto di costruire una critica anticapitalista estremamente fattuale e, in quanto tale, ben poco attaccabile, un limite è quello di porre lo sfruttamento in secondo piano. Va bene dire che il sistema inquina, ma bisogna ricordarsi che non è la sola cosa che fa. Il capitalismo non è semplicemente un atteggiamento sbagliato della collettività che danneggia l’ambiente, ma un sistema predatorio in cui una piccola parte della collettività domina sul resto. Il rischio dell’anticapitalismo ai tempi di Greta è proprio quello di pensare che il solo problema del sistema capitalista sia il fatto che inquina. Non sto dicendo che chi scende in piazza nei Fridays for Future non abba coscienza di quanto il sistema sia basato sullo sfruttamento del lavoro e generi disuguaglianze sociali, anzi. Il problema è che il messaggio che scaturisce da questa mobilitazione potrebbe risultare indebolito su questo aspetto.

Cosa fare? Anzitutto evitare di lanciarsi nella solita critica distruttiva e paternalista, cedendo alla tentazione di sabotare tutto quanto perché ci si vede “qualcosa di storto”. Il movimento ecologista sta portando avanti una critica sensata e scientifica al sistema capitalista, che necessita di essere integrata con altri punti di vista. Tutto ha dei limiti, nessuno è perfetto, lavoriamo insieme per integrare e migliorare le cose. Alla fine è più semplice di quanto possa sembrare.

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Il fatto è che adesso i biscotti li abbiamo noi.

Il giorno in cui capirò che lavoro fa Steven Forti sarà forse il giorno in cui farò finalmente pace con il poliedrico mondo degli umanisti. Lui è uno storico, e da qualche anno anche uno dei principali commentatori delle vicende catalane e spagnole presso la stampa italiana. Poi però è coinvolto in eventi musicali, scrive sul Rolling Stone, un po’ fa il giornalista, un po’ ha un programma radio, un po’ organizza strani eventi di poesia a Sant Antoni, di storia ne parla ma neanche troppo. Insomma, tradotto nei grigi e sovietici termini dell’accademia scientifica: vacce a capì quarche cazzo de cosa. Per carità, massimo rispetto e come detto nessuna critica; sono io ad avere dei limiti da nerd dei computer.

Ad ogni modo, mi è venuto in mente per una recente polemica su Twitter che lo ha visto opporsi a Pau Vidal, giornalista e traduttore in lingua catalana delle opere di Andrea Camilleri. Forti è da sempre sostenitore dell’ardita tesi secondo cui gli indipendentisti catalani siano sostanzilamente dei leghisti ispirati da un nazionalismo tossico ed escludente. Non importa se la maggioranza del movimento sia collocato a sinistra, non conta che la quasi totalità dell’area antagonista catalana sia radicalmente indipendentista e non conta la chiara natura antifascista delle rivendicazioni di chi scende in piazza in queste settimane: vogliono “separare” una “regione” dal resto della Spagna, allora sono leghisti. Punto. Praticamente, uno dei principali commentatori delle vicende catalane ha la stessa analisi che potrebbe fare un tizio in un bar di Ferrara leggendo due articoli al volo mentre fa colazione. Ma visto che Forti è un accademico che vive qui a Barcellona, allora tanta superficialità stona. E visto che non ha mai nascosto una certa preferenza per Podemos e connessioni politiche con il partito di Ada Colau (unionisti di sinistra), qualcuno inizia a vedere la cosa con una certa malizia. Questo, in soldoni, spiega perché la figura di Steven Forti sia costantemente circondata da un certo alone di polemica e rende chiare le ragioni di quest’ultimo confronto con Pau Vidal, riassunte in questo thread. Ma c’è dell’altro, e ne parlo in questo tweet:

Ultimamente agli unionisti di sinistra dice davvero male. Il tweet è un po’ iperbolico, ma rende l’idea. Le ultime evoluzioni della vicenda catalana sono state accompagnate da un netto riposizionamento dell’opinione pubblica in favore delle ragioni del movimento e del diritto all’autodeterminazione del popolo catalano. La cosa è paradossale, perché fino a l’altro ieri eravamo noi, quelli che sostenevano l’importanza della lotta catalanista, a dover sudare di fronte ad un “pubblico difficile”. Della lotta si sapeva poco, si capiva ancora meno e non si giustificava praticamente nulla. Dopo il 1 Ottobre, le cose hanno cominciato a cambiare. Con le sentenze, l’autoritarismo dello stato spagnolo è diventato palese. Avevamo ragione? Sarebbe facile iniziare a gongolare, ma le cose facili non ci appassionano, e dire che le cose sono cambiate perché la gente “ha finalmente capito” rischia di essere riduttivo e pericolosamente naive.

Chissà se Forti e gli altri sostenitori italiani di Podemos si sono mai resi conto di star raccontando una storia che, alle orecchie del progressismo italiano, suonava come meravigliosa. La nascita di podemos era, per la sinistra italiana, la realizzazione di un sogno. Un movimento orizzontale che blocca le piazze di tutto il Paese, che si struttura in un partito di sinistra in grado di cambiare gli equilibri politici. Il passaggio da movimento degli indignados a Podemos era quella cavalcata trionfale che la sinistra italiana del tardo berlusconismo sognava ad occhi aperti. La possibilità di ricostruire la sinistra dal basso, scalzare quei leader ammuffiti e rifare tutto da capo. Tutto migliore. Un sogno. Un sogno che i vari commentatori dallo stato spagnolo hanno raccontato per anni, probabilmente gratificati da un pubblico in visibilio, e forse non consci del fatto che questo pubblico li avrebbe presto traditi.

Eh già, perché il progressismo italiano è un animale stupido e bulimico, un mostro divoratore di narrazioni (soprattutto estere) di cui però si stufa in fretta. All’inizio del decennio che si sta per chiudere, la fine del bipolarismo in vista ispirava l’idea di poter cavalcare la destrutturazione politica e far nascere “qualcosa di nuovo”. In Spagna stava succedendo. Nel “Paese” già innalzato a modello della sinstra ai tempi di Zapatero, quel Podemos che stava nascendo fece presto a divenire una “speranza della sinistra”. Come ben sappiamo, nel linguaggio del mostro bulimico di cui sopra, il concetto di “speranza” è assimilabile a quello di giocattolo con cui sollazzarsi finché non ci si stufa. Il percorso politico di Podemos è stato ed è un percorso reale, controverso e difficile come altro non poteva essere nell’Europa dell’austerity. Nel tempo ha iniziato a governare città, ad ispirare il municipalismo di Barcellona e Madrid, a fare errori, a cadere e rialzarsi. È uscito dall’iperurania dei proclami ed è divenuto cosa vera, di tutti i giorni. A quel punto il mostro si è stancato del giocattolo e ha deciso di abbandonarlo poco a poco, per rivolgere la propria attenzione a nuove narrazioni da divorare, nel triste tentativo di riempire quel vuoto interiore di inconsistenza politica che lo attanaglia da anni.

E a quel punto arrivano le sentenze dei prigionieri politici, la rivolta catalana e tutto il resto. Il mostro ormai non cerca più di rompere uno schema bipolare perché quello schema in Italia non esiste più, e a romperlo è stato Grillo con i suoi Cinque Stelle. Oggi tocca resistere all’ondata sovranista delle nuove destre. Resistere al populismo. In questo, la frustrazione più grande è il sapere che i suoi nemici di sempre hanno la capacità di parlare alle classi popolari mentre il progressismo è ridotto a fenomeno di elite. Ci vorrebbe qualcuno che parlasse di ripresa del controllo democratico senza passare per il nazionalismo e la xenofobia. Essere popolare ma in senso democratico. Si comincia a pensare ad un modo progressista ed internazionalista per opporsi alla gabbia dell’Unione Europea. Ad un europeismo conflittuale in grado di tornare alle radici del pensiero di Spinelli. Un sovranismo, ma di sinistra ed europeista. Ed ecco che il mostro, goffo, lento e diffidente, si avvicina. Si avvicina alla rivolta catalana e prova a capirne le ragioni. Sperando di poterci trovare una nuova “speranza”.

Steven Forti mi ha bloccato al mio primo commento ad un suo articolo. Un commento che prometto esser stato educato e costruttivo per quanto in disaccordo. Fa così con chiunque lo critichi, e la cosa non facilita di certo lo scambio. In molti casi la conflittualità potrebbe essere ridotta da un comune sforzo a non trascendere, in altri potremmo addirittura trovare sinergie inattese. E forse questo è uno di questi. Non sono un professionista dell’informazione ma capisco bene quanto conti ottenere l’approvazione del pubblico. La gente ti apprezza se fai un buon articolo, ma ti apprezza ancora di più se gli dai “buone notizie”, ovvero se gli dici quello che vuole sentirsi dire. E per quanto la tentazione sia forte, dobbiamo evitare di farlo, tanto noi blogger occasionali quanto (e soprattutto) i giornalisti professionisti. Perché così non facciamo che alimentare il mostro.

La mia critica verso Forti e gli altri commentatori vicini all’area Podemos è sempre stata quella di aver ceduto alla tentazione di raccontare la storia che in Italia volevano sentirsi dire. Di aver smesso di parlare delle esperienze politiche seguite al movimento degli indignados con obiettività e rigore analitico, al fine di vendere una narrazione che potesse essere più appetibile per il progressismo italiano. In questo, hanno praticamente tagliato con l’accetta tutte le sfumature e tutta la complessità di un’esperienza che rimane comunque interessante nonostante i suoi limiti, ossessionati dall’idea di poterla rendere commercializzabile. Così, le storie su Pablo Iglesias, Manuela Carmena e Ada Colau sono state confezionate come tanti piccoli treats, biscottini con i quali intrattenere il mostro. Ora il loro problema è che Podemos è in discesa, Ada Colau in crisi e Manuela Carmena non è più sindaca di Madrid. I biscotti sono finiti e il mostro comincia a cercarli altrove.

Adesso i biscotti li abbiamo noi, dove per “noi” si intende quelle e quelli che si schierano dalla parte della lotta catalanista. Il mostro sembra interessato, ma mangiucchia con qualche reticenza. Mi sa che i biscotti della concorrenza gli piacevano di più. Oggi sta a noi la scelta. Possiamo decidere di comportarci come “i fan di Podemos” e trasformarci in eccellenti narratori di un qualcosa che non esiste, oppure possiamo percorrere la via più sterrata, ovvero quella di un’analisi obiettiva e spietata, totalmente scevra di interpretazioni eccessivamente ottimistiche, ma fedele a quanto sta accadendo veramente.

Con Forti e gli altri, nonostante le polemiche e le ruggini accumulate, potremmo trovare un punto di comune interesse ed iniziare una collaborazione decisamente proficua. E questo punto è proprio l’idea di mettere a dieta il mostro progressista una volta per tutte. La sinistra italiana si crogiola nel suo eccezionalismo, si permette di giudicare il resto del mondo dalla propria torre d’avorio, ma è abbastanza insicura da cercare ovunque delle conferme. E allora brama l’idea che quanto succeda nel mondo somigli a quello che si aspetti che succeda, vuole sentirselo raccontare e paga affinché l’informazione le fornisca le narrazioni che vuole ascoltare. Ma quello di cui abbiamo bisogno è distruggere la torre d’avorio e far scendere giù il progressismo italiano, mettendolo coi piedi su quella terra che ha smesso di capire da anni.

Per farlo, dovremmo smettere di idolatrare ed idealizzare questo o quel percorso politico, smettere di vendere modelli e speranze a chi vuole crogiolarsi nei suoi pregiudizi, e iniziare a fornire strumenti a chi vuole comprendere la complessità del mondo che lo circonda. Dovremmo smetterla di dare biscottini al mostro, prima che quello ingrassi fino a scoppiare. Perché poi dovremmo raccogliere i suoi pezzi in giro, tra l’immondizia del neoliberismo e i topi di fogna che scorrazzano liberi.

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Quelli che restano a guardare le sardine.

Insomma, le sardine. La nuova trovata del progressismo italiano è nata come ogni mobilitazione millenial che si rispetti; dalla tastiera QWERTY di una qualche device informatica. Tastiera i cui tasti hanno finito per vibrare su questo e su quel social fino a che il messaggio non divenisse di massa. O meglio, perdonate, “virale” come si dice nel gergo di internet. E subito, chiaramente, tutti a commentare.

A dirla tutta, i miei contatti sono abbastanza omogenei nel giudicare questa storia delle sardine una sostanziale cagata. Chiaro, sulle mie reti sociali girano per lo più trentenni che ho conosciuto fra aule occupate, Radio Onda Rossa, centri sociali romani e movimento catalano. Il fatto che le povere sardine non riscuotessero tanto successo era pronosticabile, visto che si tratta di una mobilitazione che è nata nel campo della sinstra riformista e ne ha assunto parole d’ordine, pratiche ed obiettivi. Più che altro, la gente sui miei social si divide sul se ingoiare o meno il rospo. Qualcuno proprio non ne vuole sapere, qualcun’altro obietta che – per quanto l’iniziativa non sia fantastica – si tratta comunque di una mobilitazione, e che rifiutarla a prescindere è un comportamento ottuso, spocchioso e a tratti perfino paternalista. La dinamica è la stessa dei commenti al nuovo modello dell’iPhone. Chi dice che è troppo costoso, chi ne critica la tecnologia, chi dice che “per quanto abbia difetti, è il telefono migliore sul mercato”. Certo, qui la differenza è che non ci sono gli entusiasti, i “fan boy” che di certo non mancano ad Apple e che io non trovo tra le mie conoscenze online, non in materia di sardine. A parte questo, il punto è che si tratta in entrambi i casi di pubblico, di spettatori. Il punto è che siamo pubblico.

Come ho detto, fra i miei contatti ci sono principalmente persone che ho avuto modo di conoscere tra i percorsi politici della sinsitra anticapitalista. A parte qualche catalana o catalano conosciut* negli ultimi anni, la stragrande maggioranza di loro vive o proviene dall’Italia, nello specifico dal movimento romano. Faccio sempre un uso probabilmente incorretto della parola “autonomia”, perché includo nella definizione tanto l’Autonomia Operaia degli anni settanta, quanto quella cultura politica che ne è derivata successivamente. Quella dei movimenti, dei centri sociali, dell’autogestione, del rifiuto della via istituzionale. Quella fatta da marxiste e libertari, marxisti libertari, anarco-comunisti, anarchici, comuniste e via dicendo fino ai vegani e a quel tizio che voleva abolire il denaro facendo sit-in sul sagrato della chiesa principale di ogni comune italiano*. Probabilmente sarebbe più corretto limitare la definizione di “Autonomia” al fenomeno originale, ma a me viene comodo accorpare derivati ed originale in un’unico continuum storico. Magari sbaglio.

Un continuum storico che, chiamalo come vuoi, sta comunque dando segni evidenti di senilità. L’artrosi gli impedisce di continuare ad espandersi o mantenere le conquiste del passato, l’arteriosclerosi gli fa ricordare cose ad intermittenza e quel gran brutto carattere da nonno Simpson gli conferisce una sana orticaria per qualsiasi innovazione messa in campo. E i fridays for future non vanno bene, e Greta non è abbastanza conflittuale, e le Sardine di qua, e la rivolta catalana di là. L’autonomia nacque come una grande innovazione, perché rappresentò un atto di ribellione della base comunista che riprese su di sé il controllo della lotta anticapitalista, rifiutando l’intermediazione tossica, interessata ed antirivoluzionaria delle dirigenze del PCI. Ora, però, sono passati più di 40 anni, tanti per un movimento politico. E quella grande novità corrisponde oggi ad un ottuagenario dell’anticapitalismo, che si aggira per la città in cerca di lavori da osservare. E da criticare.

Non aggiungerò altre opinioni a quelle già espresse sul movimento delle sardine. Non credo ce ne sia bisogno, anche perché mi pare evidente che un movimento messo su in quattro e quattr’otto da cinque ragazzi abbia dei limiti naturali. Amen. E soprattutto, il punto non è questo. Il punto è che, esattamente come Nonno Simpson, siamo formidabili nel criticare, ma di innovazione se ne vede poca. Il grande fermento degli inizi del decennio, quello a valle del movimento dell’Onda e a lato degli indignados dello Stato Spagnolo, sembra ormai un ricordo lontano. E se ricordate, anche all’epoca ci lamentavamo di come avessimo dovuto cedere su molti fronti. Oggi ci si riduce alla difesa dei pochi spazi che restano dagli sgomberi, al mandare avanti qualche magazine online. L’iniziativa che (per fortuna) sembra riscuotere maggior successo è “Non una di Meno”, che è comunque il capitolo italiano di qualcosa che si è mosso a livello internazionale. Per il resto, non solo l’autonomia sembra ormai incapace di produrre conflitto, ma gli stessi strumenti politici di cui si è dotata (analisi, posizionamenti e pratiche), appaiono obsoleti.

Non aggiungerò altre opinioni a quelle già espresse sul movimento delle sardine, e questo è soprattutto perché mi rifiuto di fare il vecchio sul ciglio del cantiere. Sicuramente non sono i nostri canoni, non sono i nostri standard, non sono le nostre idee né le nostre pratiche. Sono sicuro che tra i tanti detrattori del movimento delle sardine c’è chi è in grado di concepire qualcosa di più avanzato ed efficace. Però, finché non vedo qualcosa di tangibile che possa porsi come alternativa, ad esistere saranno solo sardine, girotondi e marce per il clima. Sono sicuro che la rivolta che immaginiamo è sicuramente più figa di quelle messe in campo, ma finché resta immaginaria è difficile da confrontare con le altre che, per quanto povere e stronze, immaginarie non sono.

So che in molti si offenderanno a queste parole e magari qualcuno mi degnerà di un paio di vaffanculi di commento. Se offendersi è il primo passo per ragionare, allora diciamo che offendere è la ragione per cui le scrivo. Ad ogni modo, se tra di loro dovesse capitare qualcuno che dell’Autonomia degli anni settanta ha fatto parte davvero, lo/la pregherei di non restarci troppo male. Oggi quello che dovremmo fare non è tanto dissimile da quanto si fece negli anni settanta, o da quello che si è fatto ogni volta che si è riusciti a produrre qualcosa di realmente conflittuale. Analizzare, imparare dall’esperienza, elaborare, proporre e mettere in atto. Come sapete da un po’ di tempo provo a dare il mio modesto contributo raccontando cosa succede qui in Catalogna. Non credo che sia un modello da idealizzare, ma magari può aiutare.

Se la strada percorsa finora ha cessato di dare dei risultati, forse sarebbe il caso di pensare di cercarne di nuove, invece di piangere su quanto gli strumenti sviluppati decenni fa abbiano smesso di essere efficaci. Altrimenti, l’alternativa è restare a guardare le sardine.

*Non scherzo, è vero. Mi arrivò un messaggio del genere una volta da parte di uno che si definiva “un compagno del movimento”. Mi spiace di non poter produrre prove in merito, si tratta di roba di qualche anno fa.

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Veramente credete che Renzi abbia rotto il PD per personalismo?

Se c’è davvero un’emergenza in Italia, riguarda l’opinione pubblica. Abbiamo bisogno – tutte, tutti e in tutta fretta – di migliorare sensibilmente la nostra capacità di interpretare i fatti di politica. La realtà è che di politica ne sappiamo poco, ci capiamo poco, e su quel poco decidiamo ad ogni elezione. Detta così suona come una grande banalità, me ne rendo conto. Alla fine la stessa cosa può valere in ogni Paese del mondo, e magari affermare che sia un problema solo italiano sa di quel provincialismo vittimista per il quale siamo famosi in tutto il mondo: l’Italia è il posto peggiore della terra. Si, certo. Come no?

Però, al netto del preambolo secondo cui l’opinione pubblica è debole in ogni Paese, e a rischio di ricadere nel succitato vittimismo da provinciale credo che in Italia questo problema sia significativamente più grave che in altri Paesi. Viviamo la politica come se fosse un gossip, e una stampa povera di idee, professionalità ed indipendenza non aiuta. La gente vuole sentire il gossip, i giornalisti quello gli danno. La gente la vuole così, tu me la fai così.

E chi prova a superare il gossip il più delle volte lo fa imbracciando il complottismo. Se quanto raccontato non convince, allora fa figo dire che “ehi, c’è qualcosa dietro che NON CI RACCONTANO”. Ed ecco che il dibattito rimbalza tra chi prende per buone le verità della televisione e chi vede ovunque l’intervento di poteri forti, occulti e regolarmente invincibili. I primi danno ai secondi dei complottari, i secondi danno ai primi degli imbecilli. Ed hanno ragione entrambi.

Forse però, si può superare il chiacchiericcio politico senza ricorrere a Soros e alla Massoneria. Basta prendere in considerazione variabili che sembrano ignorate dai più. E allora, parliamo di Renzi e della sua scissione.

La solita costruzione narrativistica del giornalismo italiano ne ha fatto una questione personale. Un buon racconto si centra sui personaggi, i quali sono protagonisti assoluti della storia ed oggetto dell’interesse di chi legge. Così, se l’intento è quello di romanzare la politca per renderla interessante, allora la caratterizzazione dei personaggi è fondamentale. In questo caso, la cosa si traduce nel proporre che Renzi abbia deciso di rompere con il Partito Democratico per aspirazioni personali. Voleva comandare, non gli riusciva e allora ha detto: ok mi faccio il mio partito, me ne vado e chi s’è visto s’è visto.

La cosa davvero preoccupante è che tutto ruota intorno a questo: al caratterizzazione psicologica di Renzi. Lo ha fatto perché armato delle migliori intenzioni? Lo ha fatto perché vanesio e bisognoso di stare al centro dell’attenzione? Lo ha fatto come strategia per “prendere il potere”? È preoccupante, perché in tutto questo chiacchiericcio del cazzo non si riesce a sentire nessuno che si ponga un problema fondamentale, la famosa variabile che manca. Ma quelli che lo hanno sempre sostenuto, quelli che pagavano le sue campagne per le primarie e partecipavano alla Leopolda. Quelli che hanno spinto Renzi fino ai vertici del PD. Quelli… che ne pensano di tutta questa storia?

Occhio, che un conto è parlare di complotti e poteri oscuri, un altro è riconoscere serenamente che – in una democrazia rappresentativa – i partiti rappresentano gruppi d’interesse nelle istituzioni. Possono essere elettorati ideologizzati, classi sociali o gruppi di interesse. È normale che sia così, ma ci ostiniamo a non vederlo, o a vederlo attraverso il caleidoscopio distorcente del complottismo.

Ed ecco che allora la mia domanda riguarda il blocco sociale che ha sostenuto Renzi fino a portarlo a stravincere le Europee del 2014. È possibile che questa mossa di lasciare il PD sia stata concepita in risposta all’esigenza di un certo blocco sociale di trovare una rappresentanza adeguata?

Non ho risposta, ma resto convinto che se c’è una ricetta per interpretare al meglio le evoluzioni della politica istituzionale, un ingrediente appropriato sia il legare le azioni dei politici a pressioni dei gruppi di interesse che li sostengono. Per quanto i personalismi non manchino nell’Italia di Salvini, leggere la politica come se fosse una telenovela sudamericana degli anni ottanta è comunque un approccio abbastanza ingenuo.

In questo caso, pur non avendo una risposta, comincerei a chiedermi se Renzi non abbia agito conscio del supporto di chi vedrebbe bene la formazione di un area liberal-conservatrice di stampo europeista in grado di colmare un vuoto politico pericolosamente in balia di Salvini.

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Si, d’accordo. Ma che fine ha fatto Barnaut?

Come dicevo nel mio ultimo post, una volta arrivato qui mi resi conto che gli italiani che vivono a Barcellona erano incredibilmente distanti dalle vicende politiche catalane. Ho fatto l’esempio della mia amica, che pur essendo una persona colta, con una laurea e un master, progressista ed interessata alla politica, dopo cinque anni di vita qui non sapeva cosa si festeggiasse l’11 settembre, quali motivazioni portassero le persone a scendere in piazza, e quali processi politici si stessero muovendo dietro a quelle manifestazioni oceaniche. Per dare un’idea, è come se uno che vive a Parigi ignori chi siano quelle perosne vestite con giacche catarifrangenti gialle che fanno casino in giro.

In linea di massima, gli italiani e le italiane che vivono a Barcellona sono così. Mediamente progressisti, arrivati qui quando si scappava da Berlusconi gridando “Viva Zapatero”, innamorati di una Spagna di sinistra che, come spiega a fondo Victor Serri in questo articolo pubblicato da WuMing, è più immaginazione che realtà. L’indipendentismo lo hanno preso male da subito. Una regione che vuole separarsi dal resto ricorda troppo la storia della Lega Nord, di Pontida e di tutto il resto. E quei tizi con le estelades avevano l’effetto di una secchiata fredda sul sogno di quella Spagna socialista di cui si erano innamorati. Ma che non esisteva, e loro avevano la colpa di ricordarglielo. E, si; ci hanno messo un bel po’ a capirlo.

Quando arrivai qui, mi sembrò l’allegoria della rana bollita. L’indipendentismo era cresciuto rapidamente ma gradualmente. All’inizio erano quelli “di destra” che sostenevano Mas, e magari anche gli “antisistema” che però non avevano aderito a PODEMOS. Nel 2011 alla diada erano quattro fomentati, nel 2012 un po’ di più. Nel 2013 erano quasi raddoppiati, e nel 2014, anno del tricentenario della caduta di Barcellona, erano circa due milioni. Come la rana a cui scaldano piano piano l’acqua in cui nuota, molti italiani che vivevano qui non sembravano notare la temperatura. Arrivai in pentola ad inizio 2015 e non potetti far altro che saltare. Quell’acqua era bollente, e nonostante chi viveva qui da più tempo sembrava non essersene reso conto, la questione indipendentista era già diventata la chiave di lettura unica della politica catalana. A volte, il vantaggio di essere l’ultimo arrivato, di essere un “novellino”, sta proprio nell’avere un punto di vista meno esperiente, ma potenzialmente più fresco e meno condizionato. Forse potevo fare qualcosa, ed essendo sempre stato (a vario titolo) un blogger, decisi di fare due chiacchiere con il mio coinquilino Alessio, nella cucina dell’appartamento di Joanic. “Sto pensando di aprire un magazine di informazione in italiano su Barcellona e sui Paesi Catalani”.

All’inizio la cosa era pensata per essere orientata alla comunità italiana che vive qui, poi piano piano ci rendemmo conto che un magazine in italiano su Barcellona interessava più a chi leggeva dall’Italia, specie se il tema era la gentrificazione della città, fenomeno endemicamente presente in tutte le città occidentali, e soprattutto l’indipendenza della Catalogna. In poco più di un anno raccogliemmo compagni e compagne qui, assumemmo un taglio ed un linguaggio più marcatamente “di movimento” e cominciammo a divenire il punto di riferimento di diverse realtà autorganizzate italiane che, per un motivo o per l’altro, si occupavano di Catalogna. Siamo finiti anche in un libro, quella “Sfida Catalana” di Marco Santopadre che rappresenta, con ogni probabilità, il contributo di analisi più lucido pubblicato in Italia sulla mobilitazione per la Repubblica. Alla fine niente di esaltante eh? Un piccolo blog con un podcast associato, niente più. Però una mano a capire un paio di cose riuscivamo a darla, ottenendo in cambio la sensazione che ne valesse la pena. Almeno per un certo periodo.

Esatto, perché la domanda qui è: ok, ma perché avete chiuso? Come dicevo, la vocazione unica di Barnaut divenne presto quella di informare l’Italia su quanto succedesse qui, e a dirla tutta avevamo finito per parlare solo di indipendenza della Catalogna. Quando la mobilitazione è rientrata, l’attenzione è scesa. Ci siamo resi conto che una pubblicazione dedicata aveva senso in un periodo di grande mobilitazione e di grande attenzione. Una volta scemate entrambe, finiva che avevano più valore degli articoli sporadici, ma di alto profilo e su pubblicazioni italiane. Per ora ci si è messo solo Victor tra Manifesto e Wu Ming, prima o poi ci decideremo anche noi altri.

Così, Barnaut si è dimostrato un qualcosa di troppo ingombrante per il suo scopo, finendo per diventare uno strumento anti-funzionale e venire chiaramente abbandonato. Ho creato almeno tre collettivi da quando faccio politica attiva ed ho partecipato ad altrettanti percorsi che oggi non sono più in piedi. A volte un progetto può finire per mancanza di partecipanti o di interesse, per conflitti interni o per questioni politiche esterne o congiunturali. Ecorise, un collettivo ecologista che avevo fondato alla Sapienza insieme ad altre ed altri di Biologia, finì perché quell’anno finirono per laurearsi diversi membri e non ci fu il ricambio necessario a portare avanti le diverse attività. Resistenza Universitaria, altro collettivo a cui partecipavo, venne invece reso politicamente obsoleto dalla nascita dell’area “autorg” della Sapienza (approssivamente la versione beta di quella che oggi prende il nome di Sapienza Clandestina). La fine di Barnaut assomiglia di più a questo secondo caso. Alla fine la “moltitudine” si muove per cazzi suoi, e per seguire il flusso potresti essere costretto a cambiare strada. Quello che ti lasci alle spalle potrebbe mancarti per questioni sentimentali, ma alla fine ha fatto il suo lavoro, ha fatto il suo tempo ed è ora di guardare avanti. Nessuna macchia.

Oh, chiaramente non tutto è perfetto. Faccio un esempio? Beh guardate cosa scrive il Manifesto per commentare l’ultima Diada. Non solo un articolo approssimativo, tendenzioso e poco professionale, ma incredibilmente basato sull’idea che la partecipazione di 600 mila persone in Catalogna sia un fallimento politico. I catalani sono 7 milioni, e quasi uno di loro su dieci era in piazza a Barcellona (e no, il sole non c’entra un cazzo). Per fare una proporzione, immaginate una manifestazione a Roma di 5-6 milioni di persone. Fatela, poi ne parliamo. Ecco, questo è il livello dell’informazione che arriva in Italia, ed è sempre stata una nostra preoccupazione: provare a fornire un’immagine contestualizzata e possibilmente fedele di una realtà complessa come quella che viviamo, a fronte di tante interpretazioni faziose ed approssimative. Ci stiamo riuscendo? Ni. Servirebbe qualcosa in più, perché le energie sono limitate e serve organizzazione, ma piano piano ci stiamo riuscendo.

In questo, invito sempre a seguire il progetto di Foreign Friends of Catalonia, un’iniziativa civica internazionale volta a promuovere la sensibilità internazionale sulla questione catalana e che sta facendo un lavoro davvero impressionante.

Il resto, è nostalgia di un progetto che è stato davvero divertente, di discreto impatto e che ha unito molto chi ha partecipato e seguito i nostri lavori. Nostalgia fino a un certo punto, specie dei podcast. Perché chissà che non ci si rimetta al microfono in altra veste. Vi terrò aggiornat*. Su questo e sul sito di backup che stiamo ultimando per rendere nuovamente disponibili i vecchi articoli del sito.

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È di nuovo l’11 settembre.

Sono arrivato a Barcellona nel gennaio del 2015, e questo è dunque il mio quinto 11 settembre qui in Catalogna. La Diada de Catalunya, una strana festa nazionale per una nazione che di cose strane ne ha parecchie. Nel 1714 le truppe spagnole del re Filippo V conquistarono Barcellona, completando l’annessione della Catalogna al Regno di Spagna. L’11 settembre 1714 segna la fine dell’autonomia politica dei catalani, ma i catalani decidono di farne una festa, di riprendersi quel giorno, scendendo in piazza e rivendicando la loro autodeterminazione. Una strana festa, in cui una sconfitta storica viene celebrata, vissuta con sfrontata allegria. Rigirata contro il nemico come si faceva da bambini con gli insulti mediante lo “specchio riflette”. Tiè.

Nel 2015 me ne andavo in giro a far foto da mettere su facebook delle esteladas in giro per la città. Un’amica che viveva già da qualche anno a Barcellona finì per chiedermi: ma per quale motivo questi festeggiano l’indipendenza quando stanno ancora con la Spagna? Non aveva capito molto della festa, e come lei sembravano essere in tanti gli italiani residenti qui ad essere lontani e piuttosto freddi alle rivendicazioni catalaniste. Occorreva fare qualcosa, e qualche mese dopo io e Alessio stavamo già discutendo del nome da dare al nostro nuovo magazine online. “Burn-out come la sindrome da stress sul lavoro?”. “No, BARN da Barna, il diminutivo di Barcellona, AUT da autonomia”. Loro non capivano, noi dovevamo spiegarglielo.

Allora la Diada raccolse in piazza 1 milione 400 mila persone secondo la Guardia Urbana, la polizia municipale di Barcellona. Fu un evento impressionate e dal grande significato politico. Un paio di settimane dopo si sarebbe votato e i partiti indipendentisti lo avevano promesso: se otteniamo una maggioranza assoluta di seggi e voti dichiariamo l’indipendenza. La maggioranza di seggi gli consentì di formare un governo, ma quel 48% di voti li obbligò a tergiversare. Per diversi mesi, quasi un anno. Abbastanza da rendere la Diada del 2016 un evento meno partecipato, che trasudava soprattutto insofferenza e frustrazione: che cazzo stanno facendo al governo? Perchè ci mettono tanto con questa indipendenza? Ci volle l’annuncio del Referendum del 1 Ottobre 2017 a rendere la Diada di quell’anno un evento memorabile. Non tanto per la giornata in sé, ma perché quel lunedì inaugurò il lungo autunno del Referendum, della repressione, della proclamazione della Repubblica, degli arresti e degli esili.

L’autunno che avrebbe cambiato tutto, che avrebbe lasciato la Catalogna priva di un’intera classe politica, e la Spagna priva di un governo in piene funzioni. Per due anni, o forse più. Perché se pure queste due ultime Diades sono state segnate dal bruciore delle ferite ancora aperte del movimento catalanista, è anche vero che la mobilitazione per la Repubblica Catalana segnò il destino del governo Rajoy, e il diniego dei successivi premier incaricati a concedere un nuovo referendum con tutte le garanzie (prima fra tutte quella di non venir picchiato se ti azzardi a votare), rese impossibile la formazione di un nuovo governo. Fino ad oggi, giornata in cui è di fatto fracassato l’ultimo tentativo di formare un governo socialista ed evitare nuove elezioni.

Per fare una maggioranza servono i voti dei partiti indipendentisti. Per avere quei voti serve la concessione di un referendum sull’indipendenza. Il premier incaricato Sanchez si rifiuta. E si attacca chiaramente al cazzo. La Spagna avrà anche impredito alla Catalogna di formare una repubblica, ma l’indipendentismo catalano ha reso la Spagna ingovernabile.

Ed è in ragione di questa ostinata e pacifica resistenza che il popolo catalanista ha scelto di tornare in piazza per quest’ennesima Diada. Nell’attesa delle sentenze ai prigionieri politici, che dovrebbero arrivare a breve, in un clima di sostanziale sfiducia verso i politici, anche e soprattutto indipendentisti, ma con la tenacia di chi non vuole arrendersi.

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Che la Terra ti sia greve.

Anzitutto, saluti da Barchester. A settembre uno scenario del genere è raro in questa città. Diciannove gradi, nuvole, nebbia e pioggerellina irritante. Di certo non la norma per una città che conta su temperature da spiaggia fino a ottobre inoltrato. Temperature che torneranno a giorni, quando Barcellona si sarà stancata, speriamo, di giocare a somigliare a una Manchester con il mare (cioè Liverpool). Vigilia di festa, almeno qui e per chi non deve finire un PhD come me. Domani sarà di nuovo l’11 settembre, il secondo 11 settembre dopo quel glorioso autunno del 2017.

Nel frattempo, inauguro la pratica di mettere per punti le cose salienti nella sezione “daylife”, ovvero la categoria nata per contenere la sublimazione letteraria dei cazzacci miei sparati su internet.

  • Ho preso i biglietti per Roma e tornerò presto per un periodo. Ho un matrimonio (non il mio, che a me non serve un matrimonio) e colgo l’occasione per svignarmela una settimanella.

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  • Sto per annunciare una pubblicazione scientifica di cui sono co-autore e che è stata già accettata da un journal discreto (si poteva fare di meglio). È dolce, parla di pesche.
  • È morto Stefano Delle Chiaie. I funerali sono stati pagati dai diritti d’autore pagati durante gli anni dalle Brigate Rosse. Ogni volta che qualcuno diceva “l’attentato ad opera delle BR”, lui incassava i diritti. Copyright.
  • Per chi non lo sapesse, tanto Stefano delle Chiaie quanto altri golpisti fascisti erano sempre i benvenuti qui nello Stato Spagnolo, e non disdegnavano l’ospitalità.
  • Sempre nel caso non lo sappiate, quelli che ospitavano gli stragisti fascisti da queste parti, non hanno mai pagato per le loro azioni.

Buongiorno, oggi è il #10settembre 2019 e in Spagna non sono ancora stati giudicati né condannati i crimini della dittatura franchista.— Simona Anichini ????✊⚜️????????️‍???? (@Simo_Fiore) September 10, 2019

Domani sarò in giro per cortei dell’11 settembre. Se mi seguite su instagram, tenterò di aggiornare le storie. Visca la Terra! Soprattutto quella – mi auguro pesantissima – che coprirà la faccia di quel bastardo per sempre.

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