Si, d’accordo. Ma che fine ha fatto Barnaut?

Come dicevo nel mio ultimo post, una volta arrivato qui mi resi conto che gli italiani che vivono a Barcellona erano incredibilmente distanti dalle vicende politiche catalane. Ho fatto l’esempio della mia amica, che pur essendo una persona colta, con una laurea e un master, progressista ed interessata alla politica, dopo cinque anni di vita qui non sapeva cosa si festeggiasse l’11 settembre, quali motivazioni portassero le persone a scendere in piazza, e quali processi politici si stessero muovendo dietro a quelle manifestazioni oceaniche. Per dare un’idea, è come se uno che vive a Parigi ignori chi siano quelle perosne vestite con giacche catarifrangenti gialle che fanno casino in giro.

In linea di massima, gli italiani e le italiane che vivono a Barcellona sono così. Mediamente progressisti, arrivati qui quando si scappava da Berlusconi gridando “Viva Zapatero”, innamorati di una Spagna di sinistra che, come spiega a fondo Victor Serri in questo articolo pubblicato da WuMing, è più immaginazione che realtà. L’indipendentismo lo hanno preso male da subito. Una regione che vuole separarsi dal resto ricorda troppo la storia della Lega Nord, di Pontida e di tutto il resto. E quei tizi con le estelades avevano l’effetto di una secchiata fredda sul sogno di quella Spagna socialista di cui si erano innamorati. Ma che non esisteva, e loro avevano la colpa di ricordarglielo. E, si; ci hanno messo un bel po’ a capirlo.

Quando arrivai qui, mi sembrò l’allegoria della rana bollita. L’indipendentismo era cresciuto rapidamente ma gradualmente. All’inizio erano quelli “di destra” che sostenevano Mas, e magari anche gli “antisistema” che però non avevano aderito a PODEMOS. Nel 2011 alla diada erano quattro fomentati, nel 2012 un po’ di più. Nel 2013 erano quasi raddoppiati, e nel 2014, anno del tricentenario della caduta di Barcellona, erano circa due milioni. Come la rana a cui scaldano piano piano l’acqua in cui nuota, molti italiani che vivevano qui non sembravano notare la temperatura. Arrivai in pentola ad inizio 2015 e non potetti far altro che saltare. Quell’acqua era bollente, e nonostante chi viveva qui da più tempo sembrava non essersene reso conto, la questione indipendentista era già diventata la chiave di lettura unica della politica catalana. A volte, il vantaggio di essere l’ultimo arrivato, di essere un “novellino”, sta proprio nell’avere un punto di vista meno esperiente, ma potenzialmente più fresco e meno condizionato. Forse potevo fare qualcosa, ed essendo sempre stato (a vario titolo) un blogger, decisi di fare due chiacchiere con il mio coinquilino Alessio, nella cucina dell’appartamento di Joanic. “Sto pensando di aprire un magazine di informazione in italiano su Barcellona e sui Paesi Catalani”.

All’inizio la cosa era pensata per essere orientata alla comunità italiana che vive qui, poi piano piano ci rendemmo conto che un magazine in italiano su Barcellona interessava più a chi leggeva dall’Italia, specie se il tema era la gentrificazione della città, fenomeno endemicamente presente in tutte le città occidentali, e soprattutto l’indipendenza della Catalogna. In poco più di un anno raccogliemmo compagni e compagne qui, assumemmo un taglio ed un linguaggio più marcatamente “di movimento” e cominciammo a divenire il punto di riferimento di diverse realtà autorganizzate italiane che, per un motivo o per l’altro, si occupavano di Catalogna. Siamo finiti anche in un libro, quella “Sfida Catalana” di Marco Santopadre che rappresenta, con ogni probabilità, il contributo di analisi più lucido pubblicato in Italia sulla mobilitazione per la Repubblica. Alla fine niente di esaltante eh? Un piccolo blog con un podcast associato, niente più. Però una mano a capire un paio di cose riuscivamo a darla, ottenendo in cambio la sensazione che ne valesse la pena. Almeno per un certo periodo.

Esatto, perché la domanda qui è: ok, ma perché avete chiuso? Come dicevo, la vocazione unica di Barnaut divenne presto quella di informare l’Italia su quanto succedesse qui, e a dirla tutta avevamo finito per parlare solo di indipendenza della Catalogna. Quando la mobilitazione è rientrata, l’attenzione è scesa. Ci siamo resi conto che una pubblicazione dedicata aveva senso in un periodo di grande mobilitazione e di grande attenzione. Una volta scemate entrambe, finiva che avevano più valore degli articoli sporadici, ma di alto profilo e su pubblicazioni italiane. Per ora ci si è messo solo Victor tra Manifesto e Wu Ming, prima o poi ci decideremo anche noi altri.

Così, Barnaut si è dimostrato un qualcosa di troppo ingombrante per il suo scopo, finendo per diventare uno strumento anti-funzionale e venire chiaramente abbandonato. Ho creato almeno tre collettivi da quando faccio politica attiva ed ho partecipato ad altrettanti percorsi che oggi non sono più in piedi. A volte un progetto può finire per mancanza di partecipanti o di interesse, per conflitti interni o per questioni politiche esterne o congiunturali. Ecorise, un collettivo ecologista che avevo fondato alla Sapienza insieme ad altre ed altri di Biologia, finì perché quell’anno finirono per laurearsi diversi membri e non ci fu il ricambio necessario a portare avanti le diverse attività. Resistenza Universitaria, altro collettivo a cui partecipavo, venne invece reso politicamente obsoleto dalla nascita dell’area “autorg” della Sapienza (approssivamente la versione beta di quella che oggi prende il nome di Sapienza Clandestina). La fine di Barnaut assomiglia di più a questo secondo caso. Alla fine la “moltitudine” si muove per cazzi suoi, e per seguire il flusso potresti essere costretto a cambiare strada. Quello che ti lasci alle spalle potrebbe mancarti per questioni sentimentali, ma alla fine ha fatto il suo lavoro, ha fatto il suo tempo ed è ora di guardare avanti. Nessuna macchia.

Oh, chiaramente non tutto è perfetto. Faccio un esempio? Beh guardate cosa scrive il Manifesto per commentare l’ultima Diada. Non solo un articolo approssimativo, tendenzioso e poco professionale, ma incredibilmente basato sull’idea che la partecipazione di 600 mila persone in Catalogna sia un fallimento politico. I catalani sono 7 milioni, e quasi uno di loro su dieci era in piazza a Barcellona (e no, il sole non c’entra un cazzo). Per fare una proporzione, immaginate una manifestazione a Roma di 5-6 milioni di persone. Fatela, poi ne parliamo. Ecco, questo è il livello dell’informazione che arriva in Italia, ed è sempre stata una nostra preoccupazione: provare a fornire un’immagine contestualizzata e possibilmente fedele di una realtà complessa come quella che viviamo, a fronte di tante interpretazioni faziose ed approssimative. Ci stiamo riuscendo? Ni. Servirebbe qualcosa in più, perché le energie sono limitate e serve organizzazione, ma piano piano ci stiamo riuscendo.

In questo, invito sempre a seguire il progetto di Foreign Friends of Catalonia, un’iniziativa civica internazionale volta a promuovere la sensibilità internazionale sulla questione catalana e che sta facendo un lavoro davvero impressionante.

Il resto, è nostalgia di un progetto che è stato davvero divertente, di discreto impatto e che ha unito molto chi ha partecipato e seguito i nostri lavori. Nostalgia fino a un certo punto, specie dei podcast. Perché chissà che non ci si rimetta al microfono in altra veste. Vi terrò aggiornat*. Su questo e sul sito di backup che stiamo ultimando per rendere nuovamente disponibili i vecchi articoli del sito.

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