Quelli che restano a guardare le sardine.

Insomma, le sardine. La nuova trovata del progressismo italiano è nata come ogni mobilitazione millenial che si rispetti; dalla tastiera QWERTY di una qualche device informatica. Tastiera i cui tasti hanno finito per vibrare su questo e su quel social fino a che il messaggio non divenisse di massa. O meglio, perdonate, “virale” come si dice nel gergo di internet. E subito, chiaramente, tutti a commentare.

A dirla tutta, i miei contatti sono abbastanza omogenei nel giudicare questa storia delle sardine una sostanziale cagata. Chiaro, sulle mie reti sociali girano per lo più trentenni che ho conosciuto fra aule occupate, Radio Onda Rossa, centri sociali romani e movimento catalano. Il fatto che le povere sardine non riscuotessero tanto successo era pronosticabile, visto che si tratta di una mobilitazione che è nata nel campo della sinstra riformista e ne ha assunto parole d’ordine, pratiche ed obiettivi. Più che altro, la gente sui miei social si divide sul se ingoiare o meno il rospo. Qualcuno proprio non ne vuole sapere, qualcun’altro obietta che – per quanto l’iniziativa non sia fantastica – si tratta comunque di una mobilitazione, e che rifiutarla a prescindere è un comportamento ottuso, spocchioso e a tratti perfino paternalista. La dinamica è la stessa dei commenti al nuovo modello dell’iPhone. Chi dice che è troppo costoso, chi ne critica la tecnologia, chi dice che “per quanto abbia difetti, è il telefono migliore sul mercato”. Certo, qui la differenza è che non ci sono gli entusiasti, i “fan boy” che di certo non mancano ad Apple e che io non trovo tra le mie conoscenze online, non in materia di sardine. A parte questo, il punto è che si tratta in entrambi i casi di pubblico, di spettatori. Il punto è che siamo pubblico.

Come ho detto, fra i miei contatti ci sono principalmente persone che ho avuto modo di conoscere tra i percorsi politici della sinsitra anticapitalista. A parte qualche catalana o catalano conosciut* negli ultimi anni, la stragrande maggioranza di loro vive o proviene dall’Italia, nello specifico dal movimento romano. Faccio sempre un uso probabilmente incorretto della parola “autonomia”, perché includo nella definizione tanto l’Autonomia Operaia degli anni settanta, quanto quella cultura politica che ne è derivata successivamente. Quella dei movimenti, dei centri sociali, dell’autogestione, del rifiuto della via istituzionale. Quella fatta da marxiste e libertari, marxisti libertari, anarco-comunisti, anarchici, comuniste e via dicendo fino ai vegani e a quel tizio che voleva abolire il denaro facendo sit-in sul sagrato della chiesa principale di ogni comune italiano*. Probabilmente sarebbe più corretto limitare la definizione di “Autonomia” al fenomeno originale, ma a me viene comodo accorpare derivati ed originale in un’unico continuum storico. Magari sbaglio.

Un continuum storico che, chiamalo come vuoi, sta comunque dando segni evidenti di senilità. L’artrosi gli impedisce di continuare ad espandersi o mantenere le conquiste del passato, l’arteriosclerosi gli fa ricordare cose ad intermittenza e quel gran brutto carattere da nonno Simpson gli conferisce una sana orticaria per qualsiasi innovazione messa in campo. E i fridays for future non vanno bene, e Greta non è abbastanza conflittuale, e le Sardine di qua, e la rivolta catalana di là. L’autonomia nacque come una grande innovazione, perché rappresentò un atto di ribellione della base comunista che riprese su di sé il controllo della lotta anticapitalista, rifiutando l’intermediazione tossica, interessata ed antirivoluzionaria delle dirigenze del PCI. Ora, però, sono passati più di 40 anni, tanti per un movimento politico. E quella grande novità corrisponde oggi ad un ottuagenario dell’anticapitalismo, che si aggira per la città in cerca di lavori da osservare. E da criticare.

Non aggiungerò altre opinioni a quelle già espresse sul movimento delle sardine. Non credo ce ne sia bisogno, anche perché mi pare evidente che un movimento messo su in quattro e quattr’otto da cinque ragazzi abbia dei limiti naturali. Amen. E soprattutto, il punto non è questo. Il punto è che, esattamente come Nonno Simpson, siamo formidabili nel criticare, ma di innovazione se ne vede poca. Il grande fermento degli inizi del decennio, quello a valle del movimento dell’Onda e a lato degli indignados dello Stato Spagnolo, sembra ormai un ricordo lontano. E se ricordate, anche all’epoca ci lamentavamo di come avessimo dovuto cedere su molti fronti. Oggi ci si riduce alla difesa dei pochi spazi che restano dagli sgomberi, al mandare avanti qualche magazine online. L’iniziativa che (per fortuna) sembra riscuotere maggior successo è “Non una di Meno”, che è comunque il capitolo italiano di qualcosa che si è mosso a livello internazionale. Per il resto, non solo l’autonomia sembra ormai incapace di produrre conflitto, ma gli stessi strumenti politici di cui si è dotata (analisi, posizionamenti e pratiche), appaiono obsoleti.

Non aggiungerò altre opinioni a quelle già espresse sul movimento delle sardine, e questo è soprattutto perché mi rifiuto di fare il vecchio sul ciglio del cantiere. Sicuramente non sono i nostri canoni, non sono i nostri standard, non sono le nostre idee né le nostre pratiche. Sono sicuro che tra i tanti detrattori del movimento delle sardine c’è chi è in grado di concepire qualcosa di più avanzato ed efficace. Però, finché non vedo qualcosa di tangibile che possa porsi come alternativa, ad esistere saranno solo sardine, girotondi e marce per il clima. Sono sicuro che la rivolta che immaginiamo è sicuramente più figa di quelle messe in campo, ma finché resta immaginaria è difficile da confrontare con le altre che, per quanto povere e stronze, immaginarie non sono.

So che in molti si offenderanno a queste parole e magari qualcuno mi degnerà di un paio di vaffanculi di commento. Se offendersi è il primo passo per ragionare, allora diciamo che offendere è la ragione per cui le scrivo. Ad ogni modo, se tra di loro dovesse capitare qualcuno che dell’Autonomia degli anni settanta ha fatto parte davvero, lo/la pregherei di non restarci troppo male. Oggi quello che dovremmo fare non è tanto dissimile da quanto si fece negli anni settanta, o da quello che si è fatto ogni volta che si è riusciti a produrre qualcosa di realmente conflittuale. Analizzare, imparare dall’esperienza, elaborare, proporre e mettere in atto. Come sapete da un po’ di tempo provo a dare il mio modesto contributo raccontando cosa succede qui in Catalogna. Non credo che sia un modello da idealizzare, ma magari può aiutare.

Se la strada percorsa finora ha cessato di dare dei risultati, forse sarebbe il caso di pensare di cercarne di nuove, invece di piangere su quanto gli strumenti sviluppati decenni fa abbiano smesso di essere efficaci. Altrimenti, l’alternativa è restare a guardare le sardine.

*Non scherzo, è vero. Mi arrivò un messaggio del genere una volta da parte di uno che si definiva “un compagno del movimento”. Mi spiace di non poter produrre prove in merito, si tratta di roba di qualche anno fa.

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