L’anticapitalismo ai tempi di Greta.

Ci sono molti sindacati che stanno pianificando scioperi, voglio dire: adulti che scioperano dal loro lavoro. E questo è così incredibilmente importante, mostrare che questa protesta non è solo dei bambini o degli adolescenti. È la protesta di tutti (…) Stiamo scioperando per distruggere il sistema.

Con queste parole, Greta Thunberg commentava la crescita di adesioni agli scioperi del clima, in una intervista su Democracy Now rilasciata lo scorso settembre. La cosa fenomenale di questo personaggio è la sua capacità di trasmettere con semplicità e senza vergogna un messaggio profondamente radicale. Di solito, parlare apertamente di “distruggere il capitalismo” finisce per relegarti nel ruolo di “quella o quello della sinistra radicale, massimalista, post-comunista”. Dopo 20 anni di criminalizzazione e denigrazione da parte del mainstream berlusconiano, anche buona parte della sinistra è diventata scettica sulla possibilità effettiva di superare il sistema capitalista. Invece arriva lei, e con tutta la tranquillità del mondo afferma che il sistema non è da “cambiare” o da “modificare radicalmente”. Il sistema, ovvero il capitalismo, è da distruggere.

Perché? Perché inquina, devasta, distrugge il pianeta e non è compatibile con la sopravvivenza della specie umana. Nella critica ecologista, il capitalismo prende la forma di un atteggiamento autodistruttivo, esattamente come lo è il fumare o fare abuso di sostanze per un singolo individuo, ma in chiave collettiva e globale. Un qualcosa da smettere di fare prima che sia lui a distruggere te. O meglio l’ambiente in cui vivi, e quindi te. Per la prima volta, la critica al sistema capitalista si ritrova svuotata di ogni connotazione politica e resta su di un piano puramente denotativo e radicalmente fattuale: il sistema non è compatibile con il pianeta, rischia di ucciderci e per questo va distrutto. Punto. Dicendola con un termine orribilmente di moda: l’anticapitalismo ecologista è un anticapitalismo “post-ideologico” perché non si occupa di ridefinire i rapporti di forza interni alla società umana, ma si limita a criticare quanto il sistema che impone questi rapporti di forza, cioè il capitalismo, renda la società incompatibile con l’ambiente esterno.

Nonostante la cosa abbia l’effetto di costruire una critica anticapitalista estremamente fattuale e, in quanto tale, ben poco attaccabile, un limite è quello di porre lo sfruttamento in secondo piano. Va bene dire che il sistema inquina, ma bisogna ricordarsi che non è la sola cosa che fa. Il capitalismo non è semplicemente un atteggiamento sbagliato della collettività che danneggia l’ambiente, ma un sistema predatorio in cui una piccola parte della collettività domina sul resto. Il rischio dell’anticapitalismo ai tempi di Greta è proprio quello di pensare che il solo problema del sistema capitalista sia il fatto che inquina. Non sto dicendo che chi scende in piazza nei Fridays for Future non abba coscienza di quanto il sistema sia basato sullo sfruttamento del lavoro e generi disuguaglianze sociali, anzi. Il problema è che il messaggio che scaturisce da questa mobilitazione potrebbe risultare indebolito su questo aspetto.

Cosa fare? Anzitutto evitare di lanciarsi nella solita critica distruttiva e paternalista, cedendo alla tentazione di sabotare tutto quanto perché ci si vede “qualcosa di storto”. Il movimento ecologista sta portando avanti una critica sensata e scientifica al sistema capitalista, che necessita di essere integrata con altri punti di vista. Tutto ha dei limiti, nessuno è perfetto, lavoriamo insieme per integrare e migliorare le cose. Alla fine è più semplice di quanto possa sembrare.

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