Tocca dire ai comunisti che hanno rotto il cazzo.

Stavo pensando a come metterla e mi era venuto in mente di introdurre questo post utilizzando un paragrafo scritto come se fossimo stati nel 2009, facendo parlare in prima persona un me 24enne impegnato nella lotta a difesa dell’unviersità pubblica. All’epoca la questione per me era semplice. Le elezioni politiche del 2008 ci avevano restituito il primo parlamento senza gruppi politici che facessero direttamente riferimento al socialismo o alla tradizione comunista. Questo avrebbe marcato – secondo il mio punto di vista dell’epoca – una transizione a destra della sinistra italiana che doveva essere invertita. Il “passato glorioso” della sinistra italiana doveva essere ripristinato in qualche maniera, e decisi di rivolgere la mia attività politica dentro l’università a questa ricostruzione. Non conoscevo bene i fondamenti del marxismo, nonostante ne avessi qualche idea confusa, ma sentivo che quel passato comunista ci avrebbe salvato. Decisi di affidarmi a dei compagni e delle compagne che sembravano avere le idee più chiare delle mie, e finì per partecipare a un collettivo politico Marxista-Leninista della Sapienza chiamato Resistenza Universitaria. A loro serviva qualcuno che gli facesse il sito internet, a me qualcuno che sapesse metterci dei contenuti. Nel sito e nella mia testolina confusa. Affare fatto. Col tempo però, molte cose mi parvero limitative e mi avvicinai ad aree autonome e libertarie. Senza far più ritorno, ad essere onesti.

Il punto è che già allora un approccio marxista-leninista era difficile da integrare con le istanze, le dinamiche e i linguaggi di un movimento, quello dell’Onda Anomala, che stava inconsapevolmente aprendo la stagione di proteste che hanno attraversato Europa, Asia Centrale e Mediterraneo all’inizio degli anni ’10. Faticavamo a farci capire da chi era più giovane di noi, votava per la prima volta e ricordava ben poco dei “comunisti in parlamento”, anche di quelli “infricchettoniti” della Rifondazione bertinottiana. Faticavamo a parlare di classe operaia in un’Italia in via di forte de-industrializzazione in cui praticamente nessuno degli studenti che partecipavano alle assemblee aveva i genitori operai, e la minima idea di cosa stessimo parlando. A cominciare da noi stessi.

Alla fine, tutto era guidato dalla paura di un futuro che ci avevano descritto come oscuro e incerto. Ognuno reagiva come poteva, e noi eravamo quelli che si aggrappavano a un passato che ci avevano raccontato essere migliore del presente. E del futuro, a meno che non avessimo fatto qualcosa affinché il futuro somigliasse a quel passato glorioso e perduto. Ergo, riprendere i linguaggi e le pratiche di un tempo, rifiutare la modernità per quanto ci fosse possibile. Unione Sovietica, nemici in siberia, bandiere rosse sul Quirinale e tutto il resto. Già all’epoca non funzionava, e per quanto giovane finì per sentirmi come un cucciolo di dinosauro che guarda un meteorite schiantarsi all’orizzonte. Già all’epoca non funzionava, dicevo. Figuriamoci oggi, dieci anni dopo.

Pensate davvero che oggi i comunisti in Italia non esistano? Probabilmente avreste ragione se decidessimo di far coincidere il verbo “esistere” con l’avere un impatto politicamente rilevante. Con quell’accezione no, i comunisti non esistono più da anni. Ma se intendiamo “esistere” con “esistere”, allora la storia è diversa. Ho francamente perso il conto dei partiti comunisti. Wikipedia me ne segnala almeno cinque: Rifondazione, il Partito Comunista Italiano (PCI), erede dei Comunisti Italiani di Cossutta e Diliberto, Il Partito Comunista di Rizzo (ma la sigla non è PCR, stranamente), i vetero-trotskisti del Partito Comunista dei Lavoratori (PCL) ed il PMLI che fa semplicemente parte della parte strana dell’internet. E poi c’è Potere al Popolo, ma quella è un’altra storia. Direte, quattro matti. E invece no, perché non solo non sono proprio quattro, ma non sono neanche così “matti”. Non nel modo che ci si può attendere.

Anzitutto: sono quattro? Beh gli iscritti a Rifondazione, nel 2018, arrivavano a superare i 15.000. In termini di percentuali elettorali questo è poco o niente, una frazione di quel 2% con il quale Rifondazione si attesta nei sondaggi. Però occhio a una cosa: non parliamo di elettori, ma di attiviste ed attivisti. Ovvero di chi non si limita a votare, ma è disposto a farsi riunioni serali, accollarsi attacchinaggi, prendersi incarichi di sezione e di partito e via dicendo. Non semplici “fan” o “followers”, ma gente che la politica se la lavora. E con una certa dedizione. Altri numeri? Ebbene quel che resta dei comunisti italiani dovrebbe contare, secondo quanto affermano, circa 9000 iscritti, mentre i militanti del PC di Rizzo sarebbero 4000. Prendiamo le cifre per buone e sommiamo: 15 + 9 + 4 fa 28. Ventotto mila militanti.

Ora, provate ad immaginare 28 mila persone impegnate in tutto il territorio nazionale a portare avanti una mozione politica di sinistra in tempi di sfiducia nel liberalismo e nelle istituzioni plasmate a sua immagine e somiglianza, prima fra tutte l’Unione Europea. L’impatto sulla vita politica del Paese sarebbe difficilmente trascurabile, considerando anche che la sinistra istituzionale “fatica” (per usare un eufemismo) a toranare ad affermarsi nel suo classico elettorato; ceto medio e classe lavoratrice.

Il paradosso è che i comunisti non sono tecnicamente pochi, è che sono sistematicamente ignorati. Esistono, ma non politicamente, e a causa della loro frammentazione. Quello che credo succeda, detto in parole povere, è che le loro strutture organizzative chiuse, burocratizzate e in perenne conflitto reciproco gli impediscono di contribuire alle mobilitazioni reali e affermarsi come avanguardie, e dunque di ottenere seguito e credibilità. Farò l’esempio di Fridays for future, che è il primo movimento che mi viene in mente. Chiaramente la loro vocazione è quella di aggiungere contenuto politico e dare una direzione alle lotte spontanee che emergono. Sacrosanto e direi necessario. Dopo lo scoppio delle proteste contro i cambiamenti climatici, diverse organizzazioni comuniste hanno concordato sul fatto che il salvataggio del clima dipenda da un cambio radicale di sistema. Tanto il PCL, quanto i giovani comunisti del PCI, quanto lo stesso PC di Rizzo hanno visto la mobilitazione iniziata da Greta Thumberg con un tiepido favore. Ci piace, ma a patto che la soluzione non si limiti al solito “progressismo borghese” e contempli un’approccio rivoluzionario.

Uno può non essere d’accordo con il merito della proposta politica, ma deve riconoscere che il metodo è perfettamente legittimo. Come partito ti avvicini criticamente a un movimento, ne sottolinei limiti e potenzialità e tenti di diffondere il tuo punto di vista. Nessuna macchia. Il problema è che – se sei un partito comunista – difficilmente potrai affermarti come una guida, o anche solo una possibile soluzione. Quello che puoi offrire è il tuo protocollo d’azione, burocratizzato, obsoleto e addirittura alienante. Oggi, esattamente come dieci anni fa, i comunisti rischiano di essere quelli che ti prendono mentre protesti perché il mondo non ti piace, ti offrono un punto di vista coerente e filosoficamente ben supportato, e poi ti affogano in una serie di beghe del cazzo tra partiti, microcorrenti, clan e settarismi d’ogni tipo. Inizi che volevi salvare il clima, ti ritrovi ad elaborare strategie per metterla al culo ai trotskisti e prendere la testa del prossimo corteo. E allora, come fece qualcuno di mia conoscenza, semplicemente te ne vai e li lasci a cuocere nel loro brodo.

Ovviamente non è il solo problema. Il fatto di ostinarsi a lavorare in strutture di partito concepite per somigliare a quelle del secolo scorso è solo uno dei tanti aspetti di una politica obsoleta che si, attrae ancora molti militanti, ma non fa che dimostrarsi poco utile.

Sapere che in Italia ci sono 30 mila persone disposte a impegnarsi in politica alzando la bandiera rossa, nel 2019 del Capitano e del premier Conte, in effetti è qualcosa che da una certa speranza, al di là delle differenze politiche. Rendersi conto che i loro sforzi sono resi vani dalla frammentazione è qualcosa che fa male. Dispiace, perché i comunisti non solo non sono pochi, ma non sono neanche del tutto matti, perché nonostante il passare degli anni l’analisi marxista restituisce un’immagine fedele della realtà contemporanea e perché si, la prorità resta quella di abbattere e superare un sistema che ci sta lentamente uccidendo.

E allora, cari comunisti, forse è il momento di dirvelo con todo cariño ma con altrettanta fermezza: avete rotto il cazzo.

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Esegesi dell’orbiting salviniano

Lo scorso dicembre, un articolo del New York Times metteva in guardia gli amanti del dating online da una nuova tendenza sui social media: l’orbitare, o orbiting. Funziona pressappoco così. Anzitutto dobbiamo interiorizzare un’altro termine inglese: ghosting. Si tratta di quella pratica di andare a letto con qualcuno e poi sparire. Oggi va di moda chiamarlo così, ma il concetto è tanto noto quanto ampiamente praticato da tempo. L’abbiamo fatto tutt*, l’abbiamo subito tutt*. Nessuna novità, a meno che non ci si mettano i social. Succede abbastanza spesso infatti, ed è questo il corpo della’articolo de New York Times, che quella stessa persona che è sparita dopo aver fatto sesso con noi, usi i social per continuare a far sentire la sua presenza nella nostra vita. Con i social di oggi, la cosa può funzionare in diversi modi, anche se la visualizzazione delle storie su Facebook e Instagram è forse la pratica per eccellenza associata a questo comportamento. Ti guardo e tu lo sai, ma ti ignoro perché ci sono, ma non ti voglio. Non ti voglio, ma non voglio che tu prescinda da me. Ti ho abbandonato, ma non per questo accetto che tu possa andare avanti. Orbiting. La stessa cosa che Salvini sembra voler fare con Di Maio e con i 5 stelle.

Spendere ulteriori righe nel commentare quanto le ultime vicende della politica italiana ne dimostrino la degenerazione, sarebbe un’inutile e colpevole spreco di bit, tempo di computazione, spazio sui server. Non so quanto questo valga in termini di produzione di CO2, ma so che è quantificabile in qualche maniera. E per quanto piccola sia quella quantità, sarebbe comunque troppo. Uno spreco imperdonabile in tempi di emergenza climatica.

Invece, cianciare su quanto Salvini si comporti con i 5 Stelle come uno di quegli ex che non hanno ancora superato la relazione passata, è chiaramente degno del mio tempo, del vostro e della CO2 che verrà generata nel mentre. Perché, se tanto mi da tanto, visto il clima da basso impero che si respira in un impero che non si capisce bene quand’è che sia stato “alto”, tanto vale concentrarsi sulle cazzate.

E allora Salvini, Di Maio e i paragoni sentimentali. Una decina di anni fa frequentavo una ragazza con un carattere molto difficile. Ogni volta che si arrabbiava con me (spesso, molto spesso), finiva per chiudermi il telefono in faccia dicendo che “tra noi era finita”. Spariva per il giorno successivo per poi ripresentarsi come se nulla fosse successo. Tutto bene, finché non decisi di prenderla in parola. Finita? Ok, contattai un’amica di università e ci vedemmo la sera stessa. E la mia ormai ex si attaccò al cazzo. Sembra un po’ quello che succede tra M5S e Lega.

Una crisi di coppia estiva e passeggera, un capriccio di Salvini che voleva vedere quanto davvero Di Maio tenesse a lui. Un capriccio che però avrebbe dovuto risolversi con una scopata riconciliatrice, che in politica assume le forme del famoso “rimpasto di governo”. E invece no. Di Maio e Conte colgono la palla al balzo e si liberano del partner rompiscatole, ormai diventato “ex” per sua stessa scelta. Ciao, e non farti il sangue troppo amaro se un giorno mi vedi in piazzetta mano nella mano con quell’altro. È la vita. E così, l’ex che tanto faceva il duro si atteggia a volpe, riservando a quel grappolo d’uva appeso così in alto parole di ghiaccio e frecciatine sarcastiche. Un orbiting strano, rumoroso, ma non meno volto a scongiurare il fatto di dover spiegare al proprio elettorato di aver fatto la cazzata giusta per riportare Renzi al potere.

Certo, l’allegoria si mantiene solo se – alla fine di tutto – Di Maio lo vediamo davvero in piazzetta con Zingaretti. Altrimenti, a Salvini la nostalgia per gli ex passa subito, appena capisce di poter far coppia con un elettorato dimezzato ed incarognito che gli consegnerebbe i suoi tanto agognati “pieni poteri”. A quel punto, per quanto dovremmo affidarci a nuove allegorie, non sarà la scelta dell’allegoria più appropriata il nostro grande problema.

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That agony is y(our) triumph.

Vivo all’estero da quasi cinque anni e posso definirmi, a pieno diritto, un “italiano all’estero”, che altro non è che la versone domestica e socialmente accettabile del termine immigrato. Ricordo che qualche anno fa il PD voleva istituire una giornata per le migliaia di italiane ed italiani all’estero. La proposta era della deputata italo-canadese Francesca La Marca, e prevedeva il 12 ottobre come giornata degli Italiani all’estero. Il 12 ottobre è il giorno della “scoperta” dell’America, e la deputata democratica nata a Toronto pensò bene che fosse appropriata per celebrare le lotte e i successi degli italiani e delle italiane all’estero.

Per fortuna, non se ne fece nulla. Forse la visione molto nordamericana della deputata del PD nativa di Toronto non le consentì di vedere il disagio che una data del genere avrebbe provocato agli italiani che vivono in Sudamerica, dove la data del 12 ottobre è ricordata come l’inizio degli stermini portati dagli europei nel contiente americano. Qui nello stato spagnolo avremmo festeggiato insieme all’estrema destra intenta a celebrare il 12 ottobre come il “Día de la Hispanidad”, la giornata dell’identità spagnola. Pezzi di merda.

Non se ne fece nulla, come dicevo. La proposta rimase lì appesa generando qualche polemica e sottolineando ulteriormente la pochezza e l’inadeguatezza del Partito Democratico.

Non sono sicuro che sia una buona idea quella di una giornata per noi che viviamo all’estero. Però, se proprio volete istituirne una, un paio di date ce le avrei in mente. La prima è senz’altro l’8 agosto, giornata della strage di Marcinelle. La seconda è oggi, 23 agosto, quando nel 1927 la mano del boia pose fine alla vita di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti.

Non abbiamo bisogno di una giornata, però, se proprio volete istituirne una, pensate di farlo per noi. Non per voi, e non per celebrare l’idea che avete di noi. Non per rimpinguare quella narrazione tossica ed assurda di “italiani brava gente”, non per coprire di fascino artificiale la condizione di emigrante. La grande maggioranza delle persone che lasciano il Paese lo fa per necessità, oggi come ai tempi di Marcinelle e allora come ai tempi di Sacco e Vanzetti. A parte il fatto che essere associati ad un assassino non ci fa per nulla piacere, la verità è che non siamo dei Colombo. Non andiamo alla conquista di nulla, non siamo dei colonizzatori. Siamo ed eravamo i poveracci della situazione, quelli che l’Italia ha rifiutato. Siamo quelli che vi fanno vergognare.

Meglio lasciarci in pace qui dove siamo, ma se proprio dovete farci una festa, allora sarebbe meglio dedicarla a qualcuno che ci somiglia di più.

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Il problema non è “chi ha ragione” #Colau #PODEMOS #Catalogna

Mi trovo spesso a litigare con chi appoggia Ada Colau e le sue scelte. Non so bene come facciano, visto il recente voltafaccia della sindaca del Guinardó, ma la coerenza interna delle convinzioni altrui non è una mia responsabilità.

Loro sostengono che spesso le alleanze sono necessarie, e il fatto che la Colau per restare sindaca abbia scelto di accettare i voti di Valls, candidato dei fondi speculativi votato nei quartieri “bene” della città, e aver condiviso il governo con i socialisti, che a loro tempo trasformarono la città in un immenso parco giochi per turisti, sia stato un passo necessario per continuare la “grande missione” della sindaca ed il suo apporto “rivoluzionario”. Una rivoluzione fatta di chiusure al traffico di qualche isolato al Poble Nou (nord della città), dichiarazione di Barcelona come città “vegan friendly”, possibilità di suonare musica dal vivo in alcuni locali del centro dove prima non era possibile farlo, e tante iniziative per combattere l’esclusione sociale. Iniziative annunciate, proclamate, raramente applicate e fallite puntualmente le poche volte in cui si è provato ad applicarle. Si, esatto: pensate a Pisapia, a Veltroni, a Vendola e a tutti quei politici di sinistra pieni di buone intenzioni, ispirati dai valori più nobili, ma che oltre l’estetica della narrazione non sono riusciti ad andare. La Colau.

Bisogna comunque essere onesti: l’area Podemos (di cui la Colau non fa parte ma a cui è molto vicina) ha apportato un contributo importante alla sinistra dello Stato Spagnolo. La loro idea resta quella di intervenire nelle istituzioni monarchiche per costruire giustizia sociale e il riconoscimento delle culture ed identità locali. Hanno una vaga vocazione repubblicana. Se glie lo chiedi sono per la Repubblica, ma alla fine non è che si ammazzino più di tanto per la cosa. Il loro punto è che la giustizia sociale si può ottenere anche mantenendo la struttura costituzionale uscita dalla transizione post-franchista e senza mettere in discussione l’Unione Europea.

Ha senso? Volendo si. Non dico di no. Alla fine le nostre società contemporanee, per come sono concepite, qualche spicciolo alla giustizia sociale in tempi di accumulazione del capitale tendono a concederlo. Il punto non è quello. Il punto è la pretesa di far passare tutto questo come “rivoluzionario”.

La struttura dello stato spagnolo presenta carateristiche che rendono molto difficile il riscatto sociale delle classi subordinate. Il problema non sta in chi governi, ma nella stessa struttura costituzionale. Sta nell’assenza di separazione tra giustizia e politica che facilita la repressione delle istanze di classe (vedi Ley Mordaza, prigionieri politici, esiliati), sta nella monarchia, sta nella strutturazione delle Comunità Autonome che comporta una distribuzione ineguale delle risorse.

Perché non siamo riformisti? Non per niente, è solo che il riformismo tende a promettere molto, a mantenere all’inizio e a tradire puntualmente. Come quei/lle partner instabili che ti trascinano in relazioni tossiche. All’inizio avanzi e conquisti diritti e spazi di libertà, poi al primo segnale di crisi perdi tutto e ti attacchi al cazzo, come dicono a Oxford.

Il governo Sanchez può fare qualcosa di buono, non lo nega nessuno. La Colau e i socialisti possono “fare cose buone”, e nessuno lo nega. Però, alla fine, il punto col riformismo resta sempre quello. E per quanto la cosa possa farmi apparire radicale, estremista ed antipatico, credo che nelle organizzazioni della sinsitra anticapitalista dovremmo cercare di capire che non possiamo dare spazio a chi sembra interessato a governare l’esistente senza animo di cambiare radicalmente le regole del gioco.

Se stai con la Colau magari non hai torto, ma la sinistra anticapitalista non è esattamente il luogo in cui dovresti essere. E chiaramente neanche in Potere al Popolo, per intenderci.

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Quanto eravamo Simpson 12 anni fa #10yearschallenge

Va bene, lo ammetto. Ammetto di aver riaperto questo blog essenzialmente per condividere questa minchiata, ammetto che il ritrovarla su Deviantart mi ha commosso più di quanto non potesse commuovermi il fatto di sapere di avere un account su deviantart (dove mi spacciavo per tale Gianfranco) Nell’anno 2007 uscì il film dei Simpson, quello della profezia del Nonno in chiesa, del maiale, della cupola sopra Springfield e tutto il resto. Per la promozione del film, gli autori decisero di metter su un sito con un’applicazione in Flash (orrido accrocco tanto di moda all’epoca) che ti consentiva di fare il tuo avatar in stile Simpson. Erano i tempi dei primi social network, quando la gente stava ancora su MySpace e Facebook era popolato per lo più da studenti arrapati dei college americani. La gente cominciava a capire che un “avatar” li avrebbe rappresentati sui social, e che farsene uno giallo-Simpson sarebbe stato figo.

Io, che come qualcuno ricorderà ho sempre avuto una strana ossessione (di cui vi racconterò) con l’idea di “diventare giallo”, non solo non mi feci sfuggire l’occasione, ma decisi di tirare dentro anche tutti i miei amici più stretti, o almeno quelli che mi riuscì di trasformare in pupazzi gialli.

Lasciate che ve li descriva uno ad uno, come fosse una #10YearsChallenge che di anni ne ha dodici e che arriva qualche settimana dopo il tam tam su instagram.

Il primo da sinistra sono io, con il tipico taglio fratta riccia appiatita mediante cappello (non so perché lo facessi) che portavo all’epoca. La maglietta raffigurante il pugno chiuso si deve alla mia tendenza di scassare il cazzo con la politica.

Il secondo, quello alto, magro e biondo è Luca, oggi persona decisamente più regolare, ma che all’epoca andava in giro con i capelli lunghi, gli occhiali e quel sorriso magico stampato in faccia.

All’epoca in pochi avremmo pensato che il terzo della fila sarebbe finito in un basement molto trendy in piena zona hipster di Brooklyn, ma Lello è persona dalle mille risorse. La maglietta in questo caso, con il jolly roger, rappresenta bene chi è responsabile dell’introduzione della maggior parte delle sostanze tossiche o psicoattive che i suoi amici abbiano ingerito o inalato nel corso della loro vita.

L’unico che ebbe da ridire sulla sua caratterizzazione fu Sandro, il quarto personaggio che andiamo a incontrare. All’epoca portava i capelli molto corti tenendo a precisare che no, non aveva la boccia, ma i capelli corti. Uno sforzo di chiarezza che avevo vanificato con questa immagine. La lattina di duff si riferisce ad una sua strana fissazione dell’epoca, quella di evitare di bere birra per ubriacarsi di soli shottini e ottenere una sbronza “più pulita e regolare”. Filosofia che diffondeva e predicava con gran convinzione ed un certo, strano e inquietante zelo.

Per quanto potesse essere difficile caratterizzare una persona mite e sobria (almeno nell’apparenza) come Nicola, il quinto avatar rappresenta uno sforzo in questa direzione, e in effetti rende giustizia al personaggio. Tranquillo fuori, Nicola dentro. Intento probablimente a pensare al prossimo panino “Bovary” con chiodini ad Aristocampo (non lo fanno più).

Se c’è un personaggio che è venuto veramente bene, è il Cimino in penultima posizione. Il sistema ti consentiva di prevedere una piccola rughetta sotto l’occhio, che Cimino ha da praticamente sempre e che rende l’avatar spiccicato. Cappelletto all’indietro, maglietta col pinguino, ed eccolo lì, lo sguardo di chi ha un problema con la performance del carburatore della Citroen, il sorriso di chi te lo sta per raccontare per filo e per segno durante un workshop a Strike sull’utilizzo di Arduino per accendere lucette rosse tramite il tuo PC con Ubuntu Feisty Fawn.

A chiudere la fila, Daniele viene rappresentato dalla statura da corazziere, un taglio abbastanza spartano che portava di tanto in tanto all’epoca, e lo sguardo spiritato che aveva prima di farsi tutta la fascia palla al piede per poi tirare in porta dalla bandierina mentre tu aspettavi il cross al centro, libero in area come un colpo di tacco nell’etere laziale.

Sulla pagina devinatart c’è l’immagine completa, che qui ho tagliato per motivi “editoriali”. E l’immagine completa ha un dettaglio ulteriore e interessante. In basso a destra c’è il link a un blog intitolato “Er 46”. Era una delle tante versioni di questo blog, che all’epoca prendeva il nome dell’Isola 46 di Palocco, dove ci si vedeva la sera prima di uscire. La cosa che mi ha stupito è che questo blog, sul quale non ho più alcun controllo, esiste ancora. Non c’è scritto niente ma se ne sta lì, come un relitto abbandonato, alla deriva dal 2007.

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La sporcizia è antifascista se occupata.

Il ministro Tria salva Casapound. Mentre il M5S e il PD sono uniti in Campidoglio per cercare di rimuovere la sede – occupata illegalmente – dei famosi fascisti del terzo millennio, dal governo arrivano indicazioni contrarie. Secondo il ministro all’Economia Tria, lo sgombero non sarebbe una priorità, in quanto lo stabile non è a rischio crollo e sarebbe mantenuto in condizioni igieniche accetabili. Proprio così, lo tengono pulito, allora perché scomodarsi a sgomberarlo?

C’è molto del paternalismo perbenista della destra in questo. Quel riferimento all’igiene, alla pulizia, all’ordine, sembra un richiamo alla più bieca narrativa fascista. Si sgombera ciò che è sporco, si mantiene quello che è pulito. Centro sociale di zecche sporco, sede di Casapound pulito. Appartamento occupato da chi non può permettersi una casa sporco, appartamento in Monte Napoleone per italiani con mutuo sociale pulito. Occupazioni loro sporche, occupazioni nostre pulite.

Ma perché li salvano? A dirla tutta i rapporti tra Casapound e Lega – a parte l’ovvia assonanza d’idee e contenuti – non è neanche così idilliaco , CP è troppo debole a livello elettorale per ricattare la Lega o per arrivare a trattative con lei. E allora perché li salvano?

My 2 cents: si tratta del richiamo della foresta. Le elezioni europee si avvicinano ed è fondamentale serrare i ranghi, raccogliere le forze per massimizzare il risultao. E allora una pacca sulla spalla ai vecchi camerati può essere utile allo scopo.

A questo punto credo che ci possa venire utile rivendicarci la sporcizia come identità politica. Meglio sporchi e antifascisti che sporchi nazisti.

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Catalonia is not “Autonomia differenziale”

Facendo informazione indipendente sulla Catalogna da qualche anno ormai, sono in grado di fiutare l’arrivo di polemiche che riguardano il processo indipendentista prima che altri le vedano anche solo in lontananza. Quindi lasciatemi dire due cose sulla storia della famosa “autonomia differenziale” che si affaccia all’orizzonte della politica italiana e che – prima o poi – qualche testa di cazzo paragonerà con la situazione nello stato spagnolo. Non c’entra nulla, e spiego perché ne sono sicuro.

Nello Stato spagnolo le regioni (comunidades autónomas) stabiliscono il loro livello di autonomia mediante trattative singole con lo stato centrale. Il risultato è che diverse comunità autonome possono avere un’autonomia maggiore dallo stato centrale, e questo viene fatto per venire incontro alle necessità di uno stato eterogeneo che accoglie diverse identità nazionali.

Quello che vuole fare la Lega con la sua “autonomia differenziale” non è diverso, ma s’inquadra in un contesto legislativo che viene cresciuto da anni con il solo scopo di trasferire fondi dalle regioni del Sentro e del Sud a quelle del Nord. Un’esempio è il sistema di finanziamento universitario, che sta falcidiando le università del centro e del sud – inclusi poli storicamente eccellenti come La Sapienza o la Federico II – per favorire le università del Nord Italia. Altro esempio è la sanità.

Questi meccanismi in Spagna funzionano in maniera differente. La Catalogna lamenta il fatto di non veder restituito tutto il denaro inviato “a Madrid”, e le richieste di maggiore autonomia (tralasciando la mobilitazione per l’indipendenza) si limitano a dire “lasciateci reinvestire i nostri soldi nel nostro territorio”. Meccanismi che arrivano a mettere le mani nelle tasche di chi è più povero per dare soldi a chi è più ricco, semplicemente, non esistono.

Quello che succede in Italia e che deve far indignare non è che alcune regioni stiano chiedendo maggiore autonomia, ma l’esistenza di un meccanismo atto a favorire le regioni del Nord a scapito del resto del Paese. Cosa che non c’entra nulla con la Catalogna, i Paesi Baschi e lo Stato spagnolo.

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E quindi, torna ad essere Death or Glory (yet another story).

Probabilmente un giorno rideremo di tutto questo, ma per ora da ridere ce n’è ben poco, e non credo sia mancanza di senso dell’umorismo. Sono piantato da più di un mese in questo salone per scrivere la tesi. Ho avuto tre mesi per farlo, ne manca uno e mezzo, e per quanto sia felice di poter lavorare da casa ed evitarmi finalmente quell’ora di treno fino all’Università Autonoma, le cose si fanno decisamente pesanti. Sono convinto di farcela, ma la lotta più grande è sconfiggere l’amarezza di sapere di aver potuto fare di più, e la consapevolezza di non potermi nemmeno assumere le responsabilità della cosa. Un giorno, magari, ne parleremo con calma.

Per ora resta questo lunedì mattina, il caffè ancora caldo nella moka, un capitolo da corregere, un altro da scrivere, un mese e mezzo prima della consegna. Death or glory? All’inizio di questo dottorato la vedevo in maniera più idealizzata. Grandi obiettivi, grandi fatiche, grandi risultati. E per quanto scrivere una tesi di dottorato in tre mesi del “death or glory” può averne l’aria, il punto è che devo finire per iniziare un nuovo contratto, dove spero di poter far meglio di quanto fatto finora. Insomma, anche questo mio “death or glory” continua ad essere “another story”.

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Finalmente il blog di Linus.

Cazzo, questo rischiava di non finire più. L’indecisione mi stava uccidendo. Ho deciso di aprire questo blog perché il nome mi piaceva, ma non ero sicuro di quale indirizzo dargli. In italiano, in inglese, che parli di scienza o di politica. Sfondo chiaro, scuro, minimal, hipster, new wave. Ci ho passato praticamente dei mesi. Alla fine, ho scelto che in queste pagine tornerò a parlare come facevo una volta, ormai credo più di dieci anni fa. Quando Facebook non c’era e usavo i blog per condividere cazzate con gli amici.

Spero di riportarli all’ascolto e alla lettura. Pensare che in dieci anni siamo rimasti sempre noi, che di anni ne abbiamo più di trenta e ci conosciamo da circa venti, e ancora non ci siamo persi di vista, nonostante viviamo in tre Paesi diversi. Spero che queste pagine tornino a piacergli, come gli piacevano quelle di quel nifesi.splinder.com che fu il mio primo blog, aperto nell’ormai lontanissimo gennaio del 2004 (lo so, avete cliccato ma quel sito non esiste più).

Più che altro spero che queste pagine diventino un piccolo spazio di quell’internet di una volta, quello che non c’è più. Quello coi forum al posto dei social, sul quale si andava con il computer perché il cellulare supportava solo il formato wap attraverso dei semplici browser che no, tutto erano tranne che una app.

Nostalgia? Probabilmente, ma forse c’è anche un po’ di voglia di rivedere abitudini consolidate che oggi diamo per scontate. Come parliamo su internet, come ci relazioniamo agli altri, come condividiamo le notizie e come discutiamo. Era iniziata bene e sta finendo malissimo. Siamo passati dal divertirci a vedere se il nostro sistema bastato su Debian 3 ci avrebbe aperto YouTube e siamo finiti a parlare dei #Ferragnez. Magari è il caso di fermarsi e vedere cosa è andato storto, fermarsi e fare le cose come una volta, come ce le ricordiamo. Debbugging più che nostalgia.

E allora, bentornato blog di linus e bentornati a tutti voi. Quando superiamo l’una in questa assolata domenica Barcellonese che passo a casa da solo a meditare cosa farmi per pranzo.

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Essere il cambiamento che si vuol vedere nel mondo. Forse, oltre che a dirlo, dovrei iniziare a lavorarci su.

Una volta mi trovai a litigare con una compagna del collettivo di Scienze in merito ad un volantino. Mi sono sempre occupato della grafica e della produzione di siti e manifesti. In quel volantino avevo inserito la scritta: “Be the change you want to see in the world- Mohandas Gandhi”. Panico. Gandhi era un non violento, un filocapitalista, un riformista. Gandhi aveva appoggiato le stragi in Africa portate avanti dal governo britannico (che immagino considerasse irrinunciabile il suo appoggio). Insomma Gandhi era troppo poco comunista per essere inserito nel nostro volantino. Ma vaffanculo.

Quella frase, a me, è sempre piaciuta. Sono fatto così, mi piacciono le frasi ed i concetti anche se quello che le dice non mi piace. Interiorizzare un cambiamento che si vorrebbe collettivo vuol dire comprendere l’intima connessione tra la dimensione individuale e la dimensione collettiva. Due dimensioni che hanno conosciuto un contrasto che ha attraversato tutto il secolo passato, quando parlre di collettività ti portava verso il Socialismo, e parlare di individuo era la narrazione tipica del Capitalismo. Forse una delle grandi conquiste della postmodernità è proprio il superamento di questo contrasto uno/molti.

Essere il cambiamento dunque, esserlo per realizzarlo. Diventare il cittadino di un mondo migliore né prima né dopo averlo realizzato, ma mentre lo si costruisce. Inizio da ora, nel mio piccolo.

Si perché questo post nasce con grandi pretese ma trova una conclusione piuttosto personale. Voglio fare un piccolo esperimento su di me. Sono le ore 15:00 in punto. Io sono in un’aula studio della Sapienza, e voglio cambiare. Uscirò di qui alle 19:30 e tornerò a casa. Questa sera voglio scrivere che cosa ho fatto e come penso che il ché potrebbe cambiare le cose.

A dopo.

Posted in General | Tagged | Comments Off on Essere il cambiamento che si vuol vedere nel mondo. Forse, oltre che a dirlo, dovrei iniziare a lavorarci su.